Finalmente un Vinitaly da visitatore! Quest'anno tocca festeggiare sul serio per due motivi che ritengo assai validi: 1 - Come appena detto, è il mio primo Vinitaly da visitatore e non da "manovalanza non retribuita" 2 - Con quest'anno festeggio il DECIMO Vinitaly visitato di cui i primi due-tre passati completamente da astemio a causa della minore età. Comunque, bando alle ciance. Parole d'ordine di quest'anno: passi lunghi e ben distesi, dritto alla meta e occhio alle degustazioni perchè ti tagliano le ginocchia prima di essere in grado di dire: "Scusi buon'uomo, mi sciacqua il bicchiere?". Detto questo, il 2018 è l'anno che ho definito come ottimale per andare alla ricerca di quelle nuove bollicine tanto acclamate nella nuova tradizione del Friuli Venezia Giulia che fino a qualche edizione fa aveva come motto "Top white wine" (intesi come fermi ovviamente). Incredibile come in pochi anni questa piccola regione abbia cominciato a rivoluzionare una tradizione millenaria andando controcorrente e sfidando un mercato già satollo delle bolle della regione confinante. Assaggiarle tutte sarebbe stato enormemente lungo e per quanto mi riguarda richsioso per la mia salute psicofisica in quanto fortemente contrario alla tecnica di degustazione "assaggia e sputa" che trovo irrispettosa da fare davanti al produttore, tendo ad assaporare l'intera dose somministrata. Per questo motivo ho deciso di far una piccola selezione di cantine forse meno note per le loro bolle, ma che a parere mio si sono difese più che bene! Andiamo con ordine: Azienda Vie d'Alt - I vini di Bruno Venica Siamo a Prepotto, storico territorio che continua a regalarci vini meravigliosi come il virile Schioppettino, una piccola meraviglia della DOC dei Colli orientali del Friuli. Qui ho provato direttamente dalle amni del produttore la Ribolla Gialla spumante 2013 Extra brut millesimata. Due mesi e mezzo in autoclave, 100% ribolla gialla fiulana. Fresca, dai sentori fruttati, molto morbidi e rotondi, in bocca leggermente abboccata all'inizio con un finale secco con una bella acidità. Guerra aperta col prosecco! Se avete l'opportunità, oltre alla Ribolla assaggiate anche il Friulano e il Pignolo! Azienda Agricola Valchiarò Da Prepotto ci spostiamo leggermente più a nord a Torreano in assaggio ai vini dell'Azienda Valchiarò, ancora giovane come realtà vitivinicola del territorio ha voluto festeggiare il ventennale della fondazione (1991) realizzando una bolla dal nome inconfondibile "El cit" (il cittino, la scodella). Una bolla ottenuta vinificando in purezza il Pinot Grigio e facendogli prendere la spuma in autoclave per novanta giorni. Notevola la complessità aromatica al naso, molto aromatico con decise note floreali. In bocca entra secco e ben equilibrato. Pur essendo una bolla da autoclave, lo charmat lungo gli conferisce una struttura notevole. Vini Stocco Dai Colli orientali del Friuli al Friuli Grave con i vini della Cantina Stocco di Bicinicco. Una bolla tira l'altra in questo caso. Anche se il mio obiettivo era la Ribolla Gialla spumantizzata, non ho potuto fare a meno di ricadere sul Prosecco molto ben presentato! La Ribolla Gialla in purezza è rifermentata in autoclave con uno charmat molto lungo che arriva ai cinque/sei mesi di permanenza. Profumi fini emergono da quel bicchiere che ricordano i fiori bianchi, ma ancora più interessante è la finissima bolla che rinfresca la bocca accompagnata da una lunga persistenza al palato che la rende ottimale per un accompagnare dei pasti completi. Sul Prosecco Extra Dry poco da dire... In una terra che sta sfruttando la Ribolla Gialla per fare guerra a questo vino d'oltreregione, trovare qualcosa di locale di tale struttura e finezza è veramente incredibile. Da provare! Azienda Agricola - La Magnolia Di ritorno sui Colli Orientali a Cividale del Friuli alla scoperta dei vini dell'Azienda Agricola La Magnolia e della loro tradizione pluricentenaria. Anche qui due bollicine interessanti. Una la classica Ribolla Gialla extra dry spumante in purezza, rifermentato in qutoclave per quattro mesi che trasmette immediatamente sentori ricchi di fiori e frutta a polpa bianca. In bocca esplode, riempiendo il palato in maniera energica e duratura sfumando delicatamente grazie alla bolla finissima che ricorda un metodo classico. Meno classico, ma sicuramente più interessante è lo Schioppettino vinificato in Rosè e spumatizzato in charmat. Curioso come un vino che solitamente vinificato in purezza e che crea vini virili quasi da meditazione, in questo caso dia vita ad una bolla leggera, freschissima, nella quale spuntano vivi i piccoli frutti rossi. Vini Komjanc
Ultima esperienza friulana della giornata con i vini della cantina Komjanc di San Floriano del Collio, già famosa come zona dad alto interesse bellico nel corso della prima guerra mondiale. Dalle mani di uno dei quattrofratelli che hanno preso in mano l'azienda riceviamo un prezioso bicchiere di Ribolla Gialla Alexius pluripremiata e unica bolla dell'azienda. Spumante brut metodo charmat con una permanenza dai CINQUE AI NOVE MESI! Di una freschezza unica, ma allo stesso tempo elegante che lascia traspararire la lunga lavorazione. Non si può definire una Ribolla Gialla ruffiana (non che le altre lo fossero badate bene!). Perlage?? Finissimo, un piccolo champagne nel cuore del Collio Orientale. Altro consiglio? Provate la Malvasia e il Sauvignon! Due bicchieri da non Perdere.
0 Commenti
Questa mattina, osservando un’oca trionfante sul banco di una macelleria, ho pensato ai mille usi della carne di questo piccolo animale… Solo pochi istanti dopo, una giovane donna, si faceva riempire il cestello della spesa di bistecche finemente tagliate, e di polpa di vitello giovane per i propri figli assieme ad un vassoio sfarzoso di polpette. Prima di porre fine ai miei acquisti, sono rimasto a lungo ad osservare la moltitudine di clienti che a poco a poco smembravano letteralmente il banco, portandosi a casa lonze, bistecche, costine, triti misti, petti e cosce di pollo. A fine giornata le uniche cose rimaste ad ornare la macelleria erano il fegato, le trippe, le ossa di bovino, i guanciali, gli ossibuchi, i colli di tacchino, i durelli di pollo, le creste e una montagna di carne nervosa e gelatinosa. “Più o meno è sempre così!” Afferma il macellaio: “La gente cerca la carne tenera da cucinare al momento, senza grasso e senza nervi… solo le salsicce si salvano ancora! E si che rimangono sempre i tagli che costano di meno”. Dov’è finita l’Italia che sapeva sfruttare tutti i singoli tagli di carne, di tutti gli animali da macello? Perché dobbiamo continuare ad allevare animali dei quali utilizzeremo correttamente solo i tagli principali? Perché il nostro pasto si deve limitare alle milanesi impanate, al petto di pollo farcito e allo spezzatino di vitello dal dubbio gusto? Preso dall’enfasi del momento, ho deciso di acquistare quell’oca intera per dimostrare quante cose si possono ottenere da un singolo animale e in questo caso dal pollame in generale. Con quaranta euro di spesa, mi sono guadagnato 4,5 Kg di oca italiana. Vediamo ora come si tratta con rispetto una materia prima del genere! Innanzitutto, questa è un’oca! In tutta la sua eleganza e maestositàDa un’oca del genere, si possono ottenere un’infinità di preparazioni. Cominciamo a vedere con ordine come agire. Per prima cosa, eliminiamo le ali, ricche di tendini, ma che se ben curate, possono dare parecchia carne da trito. Il secondo passo, è ricavare la pelle del collo. Se avete a disposizione un po’ di tempo e un po’ di pazienza, questa parte può diventare un ottimo contenitore per il tipico salame cotto d’oca della Lomellina. In questo caso, è necessario praticare un’incisione alla base del collo e lentamente sfilare la pelle aiutandosi con un coltello affilato in modo da non romperla e staccarla dalla carne Successivamente, è il tempo di togliere il collo vero e proprio. Anche se questa parte può apparire di poco pregio, si presta ottimamente alla preparazione di piccoli ossibuchi in umido. L’unica cosa da fare, è ricavare delle fette spesse tagliandolo a rondelle. Passiamo ora a ricavare le parti più nobili di questo animale: le cosce e il petto. Per quest’ultimo, basta utilizzare un coltello molto affilato e usare la lama rasente all’osso dello sterno per staccare delicatamente la carne lungo tutta la sua lunghezza. Se l’oca è piuttosto grande come questa, si possono ottenere due petti molto grandi adatti sia alla cottura al salto oppure ad un ricco ripieno. Passiamo ora alle cosce! Le parti sicuramente più proposte nei menù casalinghi e della ristorazione tradizionale. Per riuscire a ricavare queste due parti senza danneggiarle, il segreto è tagliare la pelle di quest’ultime fino alla schiena in modo da scoprire le articolazioni del bacino, riuscendo così a romperle con facilità. Dopo aver ottenuto le parti nobili dell'animale, non è ancora finita! Ritagliando le parti carnee rimaste attaccate alla carcassa, otterrete uno spolpo adatto al ragù, ai ripieni per i tortelli o meglio ancora per il salame! E se avete pazienza, potreste anche mettervi sotto con un bel coltello affilato per eliminare parte della pelle e del grasso per ottenere degli ottimi ritagli per dei ciccioli croccanti e saporiti! E per ultime, ma non meno importanti, le ossa! Ottime per un brodo succulento adatto alle festività. Rifacciamo un attimo i conti e analizziamo nel dettaglio gli utilizzi di ogni parte di questo splendido animale. Da una singola oca abbiamo ricavato:
Spero sia chiaro di come un singolo animale possa essere trattato in modo da limitare gli sprechi sia della materia prima che del denaro che faticosamente portiamo a casa. Non bisogna essere grandi chef per poter sfruttare un taglio di carne al meglio, basta solo avere le giuste informazioni e la voglia di mettersi in gioco. Se mai riuscissimo a ridiventare padroni della nostra gastronomia territoriale, utilizzando tutte le parti messe a disposizione dalle nostre macellerie e soprattutto dai nostri allevamenti, non ne guadagneremmo soltanto economicamente, ma anche in gusto e anche da un punto di vista ambientale. La sacralità della domenica è dipinta negli occhi delle persone e riflette comportamenti che la rendono unica. La sveglia tardi, la messa, il pic-nic fuori città, lo sport in tv, l’abbuffata famigliare e via dicendo. C’è chi la affronta in modo diverso o in qualche modo cerca di riunire in un’esperienza completa tutte queste singole attività. Noi ci abbiamo provato e i risultati sono stati strabilianti. Non più una sveglia con il sole già alto nel cielo, ma appena abbozzato all'orizzonte, ancora fioco e freddo. Una colazione frugale e veloce consumata al bancone del bar e poi via in macchina per raggiungere la pianura sterminata delle terre verdiane. Terre? Eh si, proprio terre… Roncole, Busseto, Villanova d’Arta, tutti piccoli paesi in riva al Po nebbioso che ha dato i natali al Maestro Verdi. Parleremo quindi di musica? Certo! Sarà un articolo sull'opera italiana, la trilogia popolare e la necessità di imporre l’utilizzo dell’accordatura aurea in equilibrio coi ritmi naturali. Assolutamente no! Cercheremo di proporre un percorso, meraviglioso e insolito, che solo il nostro paese è in grado di proporre. Musica e gastronomia si intrecciano in uno spartito fatto di pagine musicali e menù scritti su carta ingiallita da una mano non più ferma. Tra abiti di scena, vetrine sontuose che trasudano tradizione, cimeli storici e bicchieri colmi di bollicine spiritose abbiamo percorso la strada che da Parma arriva a Busseto, passando per Roncole Verdi. Perché è qui che è nato il Maestro, in una piccola casa contadina che fungeva da abitazione, osteria e allevamento per i bachi da seta. Qui, dove oggi si può ammirare il busto di Verdi, è cambiato ben poco… hanno costruito qualcosa li attorno, anche una piccola frasca dedicata a Guareschi, altro volto noto di questi territori. Avete capito bene... La storia del compositore italiano più nobile e famoso al mondo comincia proprio sopra un'osteria fra il chiasso dei clienti, bottiglie di Lambrusco stappate e fette di salame tagliate a coltello. Da qui può partire il nostro racconto fra musica e gastronomica. Ogni pietra di quel piccolo paese che è Busseto, ricorda il Cigno (Giuseppe Verdi) che a suo tempo le ha calpestate a sua volta. Se Roncole Verdi è la casa natale del maestro, Casa Barezzi, a pochi chilometri, è il luogo sacro dove il giovane compositore ha mosso i primi passi nel mondo della musica. Fra queste mura, si respirano ancora le note de I due Foscari che il Maestro compose sul quel fortepiano che ancora sorge nella sala padronale e naturalmente quelle di un Va pensiero suonato con le lacrime agli occhi in occasione della morte del padrone di casa, nonché suocero e benefattore del giovane Beppin (come veniva chiamato dal padre). Ma Verdi è soprattutto opera… e che opera! Ventisette per la precisione, più o meno belle senza dubbio, ma tutte scolpite nella storia e ripercorribili nelle stanze della Villa Pallavicino, sede del Museo dell’Opera Giuseppe Verdi. Fra costumi storici, riproduzioni di scenografie e arie immortali che risuonano ininterrottamente in tutta la villa, non possiamo fare a meno dimenticare come il Maestro sia stato non solo una pietra miliare del palcoscenico operistico, ma anche uno dei più importanti cultori della gastronomia di questo territorio. Un Verdi compositore, che è anche un Verdi contadino. Una persona che vive a stretto contatto con la terra e con coloro che la lavorano. Non solo note nella sua testa, ma anche i prodotti di casa: salami, salsicce, spalle cotte e crude e culatelli. Questo è il territorio giusto! Pianure sterminate e boschi per allevare i suini migliori, dalle carni più tenere e saporite che nel freddo inverno padano verranno utilizzate per produrre i salumi della tradizione. Poi, il clima umido, la nebbia e i venti si prenderanno cura di loro in un magico abbraccio che li porterà a corretta stagionatura. Sembra un caso, ma non lo è! In pochi chilometri di territorio, sono nati alcuni dei più importanti salumi emiliani e spesso italiani: il Prosciutto di Parma sulle colline, il salame Felino e lo strolghino (salame fresco di piccole dimensioni), la Spalla cruda di Palasone e la Spalla cotta di San Secondo Parmense per non parlare del re dei salumi: il Culatello di Zibello. Parlare accuratamente di tutti questi prodotti meravigliosi sarebbe impossibile in un unico post, ma vedrete che ci sarà tempo, anche lontano da Busseto. Eppure, io lo consiglio vivamente come destinazione per una domenica diversa... Tutto a Busseto sa di Verdi e sa di gastronomia: le strade tappezzate, le piazze, i locali che riproducono le note del Maestro e anche il cibo sulla tavola. Sarà l’aria contadina che si respira o quella sorta di devozione che ogni bussetano sente dentro di sé per il suo personaggio illustre e per i propri prodotti con i quali sono cresciuti, ma questa stupenda città è in rapire pensieri e parole di ogni visitatore... Potete ascoltare tutte le opere di questo genio italiano, leggere tutti i saggi e spulciarne l’infinita corrispondenza scritta in 87 anni di vita e anche gustare i migliori salumi della tradizione comodamente seduti a casa o in un locale in centro, ma non sarà mai come vivere un’esperienza bussetana accompagnati dall’anima del Maestro che aleggia ancora fra le strade di questo paese eterno.
Questa mattina, osservando un’oca trionfante sul banco di una macelleria, ho pensato ai mille usi della carne di questo piccolo animale… Solo pochi istanti dopo, una giovane donna, si faceva riempire il cestello della spesa di bistecche finemente tagliate, e di polpa di vitello giovane per i propri figli assieme ad un vassoio sfarzoso di polpette. Prima di porre fine ai miei acquisti, sono rimasto a lungo ad osservare la moltitudine di clienti che a poco a poco smembravano letteralmente il banco, portandosi a casa lonze, bistecche, costine, triti misti, petti e cosce di pollo. A fine giornata le uniche cose rimaste ad ornare la macelleria erano il fegato, le trippe, le ossa di bovino, i guanciali, gli ossibuchi, i colli di tacchino, i durelli di pollo, le creste e una montagna di carne nervosa e gelatinosa. “Più o meno è sempre così!” Afferma il macellaio: “La gente cerca la carne tenera da cucinare al momento, senza grasso e senza nervi… solo le salsicce si salvano ancora! E si che rimangono sempre i tagli che costano di meno”. Dov’è finita l’Italia che sapeva sfruttare tutti i singoli tagli di carne, di tutti gli animali da macello? Perché dobbiamo continuare ad allevare animali dei quali utilizzeremo correttamente solo i tagli principali? Perché il nostro pasto si deve limitare alle milanesi impanate, al petto di pollo farcito e allo spezzatino di vitello dal dubbio gusto? Preso dall’enfasi del momento, ho deciso di acquistare quell’oca intera per dimostrare quante cose si possono ottenere da un singolo animale e in questo caso dal pollame in generale. Con quaranta euro di spesa, mi sono guadagnato 4,5 Kg di oca italiana. Vediamo ora come si tratta con rispetto una materia prima del genere! Innanzitutto, questa è un’oca! In tutta la sua eleganza e maestosità Da un’oca del genere, si possono ottenere un’infinità di preparazioni. Cominciamo a vedere con ordine come agire. Per prima cosa, eliminiamo le ali, ricche di tendini, ma che se ben curate, possono dare parecchia carne da trito. Il secondo passo, è ricavare la pelle del collo. Se avete a disposizione un po’ di tempo e un po’ di pazienza, questa parte può diventare un ottimo contenitore per il tipico salame cotto d’oca della Lomellina. In questo caso, è necessario praticare un’incisione alla base del collo e lentamente sfilare la pelle aiutandosi con un coltello affilato in modo da non romperla e staccarla dalla carne Successivamente, è il tempo di togliere il collo vero e proprio. Anche se questa parte può apparire di poco pregio, si presta ottimamente alla preparazione di piccoli ossibuchi in umido. L’unica cosa da fare, è ricavare delle fette spesse tagliandolo a rondelle. Passiamo ora a ricavare le parti più nobili di questo animale: le cosce e il petto. Per quest’ultimo, basta utilizzare un coltello molto affilato e usare la lama rasente all’osso dello sterno per staccare delicatamente la carne lungo tutta la sua lunghezza. Se l’oca è piuttosto grande come questa, si possono ottenere due petti molto grandi adatti sia alla cottura al salto oppure ad un ricco ripieno. Passiamo ora alle cosce! Le parti sicuramente più proposte nei menù casalinghi e della ristorazione tradizionale. Per riuscire a ricavare queste due parti senza danneggiarle, il segreto è tagliare la pelle di quest’ultime fino alla schiena in modo da scoprire le articolazioni del bacino, riuscendo così a romperle con facilità. Dopo aver ottenuto le parti nobili dell'animale, non è ancora finita! Ritagliando le parti carnee rimaste attaccate alla carcassa, otterrete uno spolpo adatto al ragù, ai ripieni per i tortelli o meglio ancora per il salame! E se avete pazienza, potreste anche mettervi sotto con un bel coltello affilato per eliminare parte della pelle e del grasso per ottenere degli ottimi ritagli per dei ciccioli croccanti e saporiti! E per ultime, ma non meno importanti, le ossa! Ottime per un brodo succulento adatto alle festività. Rifacciamo un attimo i conti e analizziamo nel dettaglio gli utilizzi di ogni parte di questo splendido animale. Da una singola oca abbiamo ricavato:
Spero sia chiaro di come un singolo animale possa essere trattato in modo da limitare gli sprechi sia della materia prima che del denaro che faticosamente portiamo a casa. Non bisogna essere grandi chef per poter sfruttare un taglio di carne al meglio, basta solo avere le giuste informazioni e la voglia di mettersi in gioco. Se mai riuscissimo a ridiventare padroni della nostra gastronomia territoriale, utilizzando tutte le parti messe a disposizione dalle nostre macellerie e soprattutto dai nostri allevamenti, non ne guadagneremmo soltanto economicamente, ma anche in gusto e anche da un punto di vista ambientale. C'era una volta una fossa, o meglio... tante fosse. E a dire il vero c'erano e ci sono ancora. Sono li, dopo centinaia di anni a Sogliano al Rubicone e continuano ad essere una culla per il lungo riposo del Formaggio di Fossa. Come le idee migliori è nata per caso. Nel tentativo di nascondere le cibarie dalle incursioni degli invasori, i contadini capirono che, a lungo andare, la fossa non solo conservava i cibi, ma li avvolgeva e li trasformava in qualcosa di nuovo, diverso, estasiante e intrigante. Un processo empirico se vogliamo, ma che col tempo è diventato uno strumento insostituibile nelle mani dei produttori. Oggi le fosse di Sogliano non raccolgono più alimenti di svariata natura, ma solo formaggio... e che formaggio! Forse poco importa che abbia il marchio DOP, l'importante è che sia vaccino, di pecora o un mix di entrambi e che venga posto per il giusto tempo all'interno di questi scrigni sotterranei. Una volta pronte le forme "base", dopo circa tre mesi possono essere racchiuse nel loro personale sacchetto di cotone e impilati in altri sacchi assieme alle altre prima di incontrare i profumi della fossa. E poi?... e poi ci vuole un po' di magia e del tempo, per fare in modo che tutte le forme parlino fra di loro, si adattino al luogo e lascino che la temperatura e l'umidità della fossa facciano il loro lavoro per trasformare dei formaggi già eccellenti nel Formaggio di Fossa che ancora oggi possiamo apprezzare. Non è una cella, non è un frigo, ma è una fossa... Un luogo che sta a contatto con la terra e la roccia del sottosuolo, che risente del clima esterno e in base al tempo si modifica. Se fa caldo, sprigiona umidità, se fa freddo, al contrario, risulta più secca. E non dimentichiamo la paglia! Dieci centimetri di paglia di grano difendono il formaggio dall'umidità e conferiscono sapori unici, soprattutto a quelle forme fortunate che vi sono a contatto. Non pensiate poi che basti una notte perchè la magia faccia il suo effetto, nemmeno giorni, ma mesi: una lenta metamorfosi accompagnata dal ticchettio del tempo penetra la sottile maglia di cotone delle forme e agisce inesorabile realizzando qualcosa che solo la natura è in grado di fare. Una natura meravigliosa, quella intorno a Sogliano, forse poco conosciuta, ma che è madre di questa magica tecnologia della maturazione del formaggio in fossa.
Una realtà ancora contadina incastonata in un territorio unico nel suo genere a due passi dalla romagna più conosciuta e affollata. Definirla antica e magica è l'unico modo per cercare di trasmettervi le meraviglie che qui vi abbiamo trovato... Il passaggio dalle città caotiche e frenetiche al mondo idilliaco delle colline e della campagna non è mai cosa semplice. Un buon bicchiere di vino, può essere un valido motivo per raggiungere queste terre. Una macchina fotografica atta all'uso, un'allegra e sorridente romagnola al mio fianco e due ciceroni a farci da guida fra gli splendidi edifici di Solopaca, alla ricerca della storia di questi territori e della cultura vitivinicola della regione. Bastano pochi sguardi ai vecchi palazzi e alle vie strette del borgo per capire quanto siamo distanti dal capoluogo campano. Anche il clima è diverso: c'è il sole che asciuga le foglie dei vigneti, ma un vento freddo ci consente di godere di una stagione meravigliosa come l'autunno. Solopaca è un luogo dove il tempo si è fermato. Sono rimasti in pochi a godere quotidianamente delle bellezze del posto. Tutti si conoscono e anche i nostri accompagnatori salutano con entusiasmo ogni singola persona che si appresta a girare l'angolo di una strada. Qualche vecchietto qui e là, le poche botteghe aperte e questa architettura fuori dal tempo rendono il borgo magico e malinconico allo stesso tempo. Quasi sopraffatti dalla bellezza del luogo, abbiamo scordato il motivo della nostra visita: la Cantina di Solopaca. Lasciamo dunque la piccola strada cittadina per dirigerci nel mondo dell'enologia locale. Guidati da Almerico e Pasquale, ci siamo diretti verso la cantina armati di curiosità e intraprendenza. Al nostro arrivo, uno spettacolo meraviglioso... Strutture imponenti, ma eleganti, accarezzate da un via vai continuo di acquirenti pronti a farsi coccolare dai loro acquisti enologici presi direttamente dal produttore. Basta una rapida occhiata al punto vendita per capire la vision della cantina. Sono passati ormai cinquant'anni da quando venticinque produttori diretti decisero di fondare una Cantina Sociale per far fronte ad un periodo storico non proprio facile per la viticoltura campana... e i cambiamenti sono tangibili. "Il termine cantina sociale non ci appartiene più come un tempo, o meglio, vorremmo cercare di distaccarci da un pensiero comune secondo cui la cantina sociale raccoglie un po' di tutto e produce dei vini di qualità più o meno discutibile". Queste sono le parole di Pasquale che con lungimiranza ha inquadrato il futuro della cantina. Basta guardarsi intorno per capire qual è il potenziale di questa impresa. Non parliamo solo delle dimensioni, ma anche della cura con la quale avvengono i processi produttivi, dal conferimento delle uve fino all'imbottigliamento delle diverse etichette. La parte che io e la mia compagna di viaggio aspettavamo con ansia però, stava sicuramente sotto in nostri piedi. La curiosità di intraprendere la visita alle sale di maturazione e invecchiamento dei vini nelle botti di legno è sempre stato il momento più ambito. Come tanti soldati sull'attenti, le botti imponenti troneggiano ai due lati della cantina in un riposo fatto di legno e tempo. Questa atmosfera surreale a tratti mistica, viene per un attimo ad incrinarsi al racconto struggente di Almerico e Pasquale che, partendo da una bottiglia infangata, ripercorrono il lungo cammino che ha portato la Cantina di Solopaca, colpita da un'alluvione, a ritornare in piedi più viva che mai. "Sono stati momenti difficili", afferma Almerico "Ma la solidarietà della popolazione ci ha permesso di rimetterci in carreggiata. L'idea di mettere in vendita le bottiglie infangate, come simboli della lotta dell'uomo contro le asperità della natura, è stata la chiave vincente". Non esiste modo migliore di comprendere un territorio e le sue potenzialità se non assaggiando un vino del zona, servito nei luoghi dove viene prodotto e da mani esperte. In quelle poche gocce che riempiono il bicchiere è racchiuso il sole che bacia le colline, l'acqua purissima che scorre in queste zone, la fatica dei produttori e ogni singolo granello di argilla del terreno. Quando Pasquale ci disse di voler abbandonare l'idea della cantina sociale, non avevamo ben chiara l'idea del prodotto che fosse in grado di realizzare. Profumati al naso, dai sentori delicati e fruttati del Falanghina, fino a quelli più complessi e balsamici dell'Aglianico. Molto puliti in bocca, corposi, lunghi, estasianti: è un territorio che si sprigiona in bocca.
Degni dei premi nazionali e internazionali più alti e ottimi per soddisfare anche i palati più raffinati. Per uno come me che viene da una regione conosciuta nel mondo per i suoi vini, accogliere nel proprio portfolio di conoscenze dei prodotti come quelli della Cantina di Solopaca è stata un'esperienza unica. Essere poi accompagnati da persone competenti che vivono il vino quotidianamente è un motivo in più per spingersi ad intraprendere viaggi del genere. Avere a fianco persone, come la mia cara romagnola, che condividono la passione per le nuove scoperte in ambito gastronomico, permette di rendere ogni momento indimenticabile. “Ricordati! Quando vai al sud piangi due volte: una volta quando vai e una quando torni”. Questa è una tiritera che ha fatto storia e devo ammettere che è stato difficile non pensarci nel corso di questo viaggio nelle terre campane. Tre giorni sono pochi per innamorarsi e per odiare un luogo, questo lo ammetto, però né l’andata verso Napoli né il ritorno a casa sono riusciti a strapparmi un pianto malinconico. Eppure le lacrime ci sono state… Le ho viste, le ho percepite e incredibilmente, sono riuscito ad assaggiarle. Non parlo solo di quelle lacrime fatte di acqua e sale che cadono dagli occhi in una giornata storta, ma di qualcosa di più, che ho percepito attraverso il cibo, il vino e le persone incontrate in questi territori. Città meravigliosa Napoli, indescrivibile da uno che non ha mai varcato quella invisibile linea che separa il nord d’Italia dal sud del mondo. Frenetica, a tratti chiassosa come una Milano nell’ora di punta, magica come la Venezia della Serenissima e prepotentemente spinta sul mare come la mia cara Trieste. Non saprei raccontarla meglio di così… Allegra sì, movimentata pure, proiettata verso il futuro, ma ricca di paure, di malinconia, di lacrime appunto. Attraverso i lunghi vicoli addobbati a festa, troneggiano corni e cornetti di un rosso sangue atti a scacciare la sfortuna. Nemmeno le migliaia di statue dei presepi sembrano gioire per l’arrivo di Nostro Signore: appaiono tristi nei loro visi grotteschi modellati a regola d’arte dagli artigiani del luogo. Nello splendore degli abiti e della loro fattura, non sembra trasparire la gioia del lieto evento. Ma tutti ridono a Napoli, tutti gridano e tutti mangiano, come se fosse sempre festa. Qui la scoperta delle lacrime più famose di Napoli. Da un soffice impasto di farina, uova e burro accuratamente mescolati e stressati nasce il Babà napoletano, emblema di una pasticceria italiana fatta di sostanza e pochi fronzoli. La lacrima? Sfumata, lenta, ma inesorabile se il babà è fatto a regola d’arte. È a base di rhum, il migliore, per conferire carica e carattere atte a scaldare il cuore. Lasciamo alle spalle la lacrima calda e avvolgente del Babà napoletano, per farci coccolare dalle dolci colline del Sannio. Un verde irreale, tanto che non pare lo stesso mondo del giorno prima. “Noi non c'entriamo niente con Napoli” afferma con voce ferma il nostro accompagnatore della Cantina di Solopaca… io ci credo. Fra i lunghi filari di vite ormai in cammino verso il riposo invernale, c’è il silenzio: solo il vento a disturbare l’inesorabile scorrere il tempo. Una cantina enorme, titanica per una zona fatta di piccoli borghi quasi abbandonati in provincia di Benevento. Curata nel dettaglio per dare soddisfazione al palato e all’occhio. Una storia interessante, quella della Cantina di Solopaca, ancora ben ancorata alla filosofia post-bellica della cantina sociale, ma che freme per volare lontano nel tempo e nello spazio. Falanghina, Aglianico, Moscato, Carrese del Sannio, Fiano, Greco e uvaggi di diverso genere accuratamente studiati soddisfano da cinquant’anni tutti i palati e tutte le tasche. Una qualità eccellente che si percepisce dalla cura nella presentazione, nell’ordine e soprattutto nelle parole di chi ci lavora quotidianamente. Una nota dolente… Qua e là delle bottiglie sporche, infangate… paiono proprio un errore, messe là a disturbare l’occhio. “Quelle bottiglie rappresentano uno dei nostri peggiori e migliori ricordi in questa cantina. Proprio un anno fa, una terribile alluvione ha colpito queste zone e la nostra cantina si è trovata completamente sommersa… Tutto sembrava perduto, fino a quando abbiamo deciso di usare proprio quelle bottiglie infangate come simbolo di una dura lotta per riprenderci. Non ci pareva vero, ma nel giro di pochi giorni fummo sommersi di ordini e il nostro punto vendita fu letteralmente invaso dalla gente del luogo che decise di acquistare i nostri prodotti per darci una mano a risollevarci: e così è stato! Ora però parliamo d’altro, che al solo pensiero mi vengono le lacrime agli occhi”. Queste sono le parole di Almerico e Pasquale, i nostri personali ciceroni in cantina… e queste sono le lacrime che ho percepito. Non sono stato in grado di vederle scorrere, ma le loro parole ne erano intrise. Lacrime di tristezza e gioia allo stesso tempo che oggi scorrono ancora dentro quelle bottiglie sporche di un fango scuro e fatto di speranze. Napoli, cara Napoli, allegra, vitale, superstiziosa e pia, a tal punto da aver dedicato uno degli uvaggi più famosi al Cristo. Alle pendici di un Vesuvio eterno, una terra nera ospita le vigne della Cantina del Vesuvio appoggiate dolcemente al fianco del vulcano con lo sguardo rivolto verso il golfo. Terra, fuoco, acqua e vento hanno reso il terroir di questa terra unico al mondo e non ne siamo consapevoli solo noi. “La leggenda vuole che Gesù Cristo, seduto sulla bocca del Vesuvio riconobbe in questa area una zona del paradiso rubatagli da Lucifero nel corso della sua caduta agli inferi… Tanta è stata la commozione nel vedere questo splendore, che gli cadde una lacrima che diede origine ai vigneti e così al vino: il Lacryma Christi”. Questa lacrima è da bere, accompagnata dal pane e dall’olio, in una triade mediterranea a tratti divina. Una lacrima celeste, per un olio santificato dalla purezza di queste terre su un letto del pane che dà la vita… La stessa vita che nasce dalle pendici del Vesuvio e che lui stesso è riuscito a portarsi via. Basta passare qualche ora ad Ercolano per capire come questa terra abbia dato tanto all’uomo per nutrirsi, ma che è in grado di toglierci tutto in un istante. Non esistono più il pane, l’olio e il vino fra quei mattoni, ma solo un infinito silenzio… E le lacrime? Nemmeno quelle ci sono più: sono finite, si sono asciugate nel tempo e a noi non resta che immaginarle scorrere dagli occhi della gente che ha vissuto la paura di perdere tutto. Non ho pianto sul treno d’andata… non ho pianto sul treno di ritorno, ma ora resto disteso su un letto dopo un viaggio intenso, a tratti mistico, fatto di gente, cibo, vino e soprattutto lacrime…
A 1250 metri sul livello del mare, sorge il Comune più alto del Friuli Venezia Giulia diviso in due piccole frazioni: Sauris di Sotto e Sauris di Sopra. A pochi metri da un Mare Adriatico cristallino sorge il capoluogo di Regione: Trieste. Sauris conserva il fascino del paese di montagna, lontano da una pianura confusionale. Il cielo azzurro e gli immensi boschi lo rendono un posto magico che pare uscito da una favola dei fratelli Grimm. La gente del posto parla un dialetto duro, spesso con qualche inflessione austriaca qua e là, necessaria per rimarcare i concetti: sembra fatto apposta per riuscire a vivere fra quelle montagne… Trieste è elegante, imperiale, frenetica nelle sue attività produttive, con un porto che non dorme mai. Da una parte il mare azzurro e dall'altra il Carso scolpito di una storia inenarrabile. Qui il dialetto sembra adagiarsi su quello specchio di acqua che bacia la città con una cadenza morbida che a volte mitiga in un “parlare slavo” come dicono i vecchi capace di gelarti il sangue nelle vene. Duecento chilometri e 1200 metri di dislivello separano geograficamente e culturalmente le due città, eppure visitandole a pochi giorni l’una dall’altra sembra che abbiano in comune ben più di un territorio politico. Nel 1826 nasce a Sauris Pietro Schneider che col tempo diventerà un esperto norcino, non solo abile nella lavorazione delle carni suine, ma anche nell'uso dei legni per le tecniche di affumicazione. Sarà lui il padre della storia del salumificio Wolf. Nel 1870 a Trieste nasce la prima attività della famiglia Masè inventori del primo Prosciutto Cotto di Praga in città: il famoso prosciutto affumicato ripreso dalla tradizione asburgica. In queste terre conosciute nel mondo per il Prosciutto di San Daniele convivono due tradizione che sembrano lontane nel tempo e nello spazio: la cottura dei salumi e l’affumicatura. In entrambi i casi si tratta di retaggi provenienti da terre lontane fra l’Austria e la Germania dove storicamente i salumi difficilmente prendevano la strada della stagionatura e finivano direttamente in stanze di affumicatura e/o in un pentoloni d’acqua bollente. Dopo più di 150 anni di storia, le due aziende cavalcano l’onda dell’artigianalità e della tradizione che li ha contraddistinti per decenni. Lente stagionature e affumicatura con legna di faggio per i salumi d’alta montagna di Wolf e lente cotture, aromi naturali, croste di pane per Masè. Ognuno dei due è un Re nel proprio territorio. Wolf produce ancora oggi uno dei prosciutti più buoni del nostro paese: il Sauris IGP. Caratterizzato da una stagionatura in alta quota, una affumicatura leggera e da pochissimi ingredienti al di fuori del sale. Il Prosciutto di Sauris IGP è figlio della montagna e di territori confinanti. Speck, prosciutto crudo e salame affumicato brillano nel firmamento della salumeria della Carnia e rispecchiano l’artigianalità di un tempo. Masè si è evoluto nel tempo: sono cambiati i proprietari, le tecnologie, le materie prime, ma senza mai voltare le spalle all'artigianalità. La passione per il loro mestiere li ha spinti alla ricerca dell’eccellenza nella produzione dei salumi cotti della tradizione triestina. Dal Cotto di Praga dal “sapore asburgico”, al cotto in crosta di pane fino alla famosa porcina, la cura dei particolari permette a Masè di non avere rivali. Il loro trucco? Essere rivolti al futuro con delle solide radici nel passato: chimica inesistente, lunghi massaggi, miscele di spezie selezionate, affumicature a legno e mani sapienti rendono i prodotti unici ed inimitabili. Non me ne vogliano a male i fratelli di San Daniele, ma davanti a questi due colossi della salumeria friulana c’è da levarsi il cappello e inchinarsi.
Quelle di Masè e Wolf sono due storie che reincarnano quella voglia di tradizione e artigianalità che stiamo cercando in questo settore. L’idea che piccole produzioni del genere siano quotidianamente a rischio o che non siano valorizzate con la giusta importanza è motivo di ansia e sgomento. Per Sauris, per Trieste, per il Friuli Venezia Giulia e le tradizioni che supportano e promuovono in Italia e nel mondo, Masè e Wolf rappresentano la voglia di andare avanti e il sostegno ad una realtà locale che si spera diventi più “globale” che mai. Un racconto per non dimenticare... Non l’ho mai visto guardare l’orologio, eppure è sempre stato lì appeso al muro bianco della cucina. Lui sapeva esattamente quando iniziare, per portare in tavola la polenta “alla mezza” come era solito dire a noi bambini. Grande lavoratore, il nonno, muratore da una vita, contadino per hobby, vignaiolo per necessità: non aveva mai preso in mano una pentola in vita sua… tranne quel paiolo di rame. Era un po’ la sua arma da guerra. La nonna plasmava da anni piatti di indiscutibile bontà: dalla carne al pesce, ai dolci alle superbe paste fresche, ma la polenta del nonno riusciremo difficilmente a scordarla. Non l’ho mai visto guardare l’orologio, eppure è sempre stato li', appeso al muro bianco della cucina. Lui sapeva esattamente quando iniziare, per portare in tavola la polenta “alla mezza” come era solito dire a noi bambini. Grande lavoratore, il nonno, muratore da una vita, contadino per hobby, vignaiolo per necessità: non aveva mai preso in mano una pentola in vita sua… tranne quel paiolo di rame. Era un po’ la sua arma da guerra. La nonna plasmava da anni piatti di indiscutibile bontà: dalla carne al pesce, ai dolci alle superbe paste fresche, ma la polenta del nonno riusciremo difficilmente a scordarla. Un sacco logoro in credenza, sempre quello, da quando ho avuto memoria, lasciava a stento intravedere quei granuli grezzi, spesso scuri simili ad un tesoro nascosto da qualche pirata in fuga. Non credo che in famiglia qualcuno si fosse mai avvicinato a quel tessuto di chissà quale epoca, eppure tutti ne conoscevano la posizione e il contenuto. Ogni domenica, con cadenza svizzera, il nonno lasciava il lavoro dell’orto, entrava in casa con passo pesante e austero brandendo in mano il suo paiolo e il mestolo in legno. In casa calava il silenzio… di li a poco si sarebbe compiuto un miracolo. Prima lo scroscio dell’acqua, poi il vapore, le bolle scoppiettanti e il tintinnio inconfondibile del sale che si adagia sul fondo della pentola. In quel momento, il sacco che passava il suo tempo relegato in credenza veniva aperto. Una cascata dorata illuminava la cucina e i nostri volti innocenti, mentre le braccia sapienti di quell’uomo prendevano vita in un vortice di acqua e farina dentro questo pozzo dei desideri. E ora? Adesso aspettiamo diceva lui. Mentre la vita scorreva ininterrottamente attorno a noi, il nonno e la pentola sembravano in un mondo loro fatto di amore e magia. Guai a chi tentava di avvicinarsi! Lui sapeva quando girare quella massa gialla. Lui sapeva quanto andava massaggiata. Lui sapeva quando sarebbe stata pronta. Noi eravamo armati di forchetta e in quelle frazioni di secondo in cui il nonno volgeva qualche sguardo ammiccante verso la consorte noi zompavamo accanto al paiolo per assaggiare. Si può dire che eravamo più attirati da questi momenti di alta tensione che al pranzo stesso. Ed è di nuovo il silenzio… è giunto il momento. Lo sguardo di speranza e amore dei coniugi muta in un segno di intima intesa. Da qui, lui torna ad impugnare il paiolo mentre lei estrae da una mensola un grande tagliere. Con un gesto degno di un fabbro e un colpo secco, l’enorme pentola è rovesciata su quel pezzo di legno. Silenzio… lungo, infinito. Anche i nonni trattengono il fiato.
“Sarà venuta?”. “Sarà abbastanza soda da rimanere sul tagliere?”. “Si sarà attaccata?”. “Ci sarà abbastanza crosta per tutti?” Con la stessa velocità con cui si tira via un cerotto, viene scoperchiato questo scrigno metallico dal quale fuoriesce una nube di bianco vapore e piano piano al diradarsi compare lei… Bella, gialla, morbida, formosa, rustica in grado di suscitare le emozioni più vere, rudi e profonde dell’uomo. Non serve altro. Un filo sottile di spago logoro per separare le spesse fette da questo sole che troneggia nel mezzo della tavola… ed è subito festa… Anche quest'anno i caseifici dei produttori di Parmigiano Reggiano hanno aperto le loro porte a ghiottoni, estimatori e curiosi desiderosi di imparare l'arte della caseificazione di questo prodotto. Per chi visita queste realtà per la prima volta, l'emozione che suscita vedere la produzione completa è indescrivibile, ma per quelli come noi che possono vantare un record personale di visite, queste occasioni sono utili per carpire alcuni segreti che spesso passano in secondo piano. Dietro questo formaggio non esiste solo il lato produttivo che trasforma il latte in Parmigiano, ma c'è un mondo fatto di cura e amore per gli animali che ci forniscono la materia prima, il latte, e anche le mani sapienti del Mastro Casaro che riesce a coglierne le sfaccettature date dall'alimentazione, dal clima e dalla stagione. "Con gli anni e l'esperienza ho imparato a cogliere la differenza del latte. Sai perchè, se fuori piove o è secco, la vacca fa un latte diverso. Lo stesso vale per la stagionatura! Se piove le muffe si formano facilmente, al contrario ci vuole più tempo". Queste sono le parole del Mastro Casaro dell'Azienda Agricola Giansanti di Muzio di Parma al quale abbiamo fatto visita e che ci ha spiegato i segreti dietro la produzione. Prima di accedere alle sale di produzione, pero', ci ha "caldamente obbligati" a fare un giro per le sue stalle dove vivono le vacche che ogni giorno gli danno il LORO latte per fare il SUO Parmigiano. Tipico esempio di filiera a ciclo chiuso che parte dalla realizzazione dell'alimentazione per gli animali fino alla vendita del prodotto. Cinquant'anni di lavoro, milioni di litri di latte passati per le sue mani e tanta soddisfazione per un lavoro che a settant'anni è ancora una passione. Ma cambiamo territorio. Dall'alta pianura passiamo alle dolci colline della pedemontana nei luoghi del langhiranese e del Prosciutto di Parma dove abbiamo incontrato il Caseificio Saliceto e tutta la famiglia che lavora nella produzione di Parmigiano Reggiano e dei salumi tipici ottenuti con maiali allevati in azienda. Questa azienda rappresenta il più classico esempio di doppia filiera padana dove un caseificio produce eccellenze gastronomiche e con gli "scarti" di lavorazione vengono allevati i maiali per dare alla luce tipicità dal gusto inconfondibile. Anche qui l'allevamento è strettamente legato alla produzione. Tutto viene fatto a livello aziendale e nel pieno rispetto del benessere animale. "Sapete, le vacche da latte soffrono molto il caldo, percio' noi abbiamo attrezzato l'allevamento con soffioni per creare correnti d'aria e docce per rinfrescare i capi nelle stagioni più calde. Praticamente non è una stalla... è una SPA per animali". Anche qui come a Parma, prima del formaggio, c'è l'animale che lo produce. Come se non bastasse, appena fuori dal caseificio, sorge una costruzione ricca di finestre dalle quali è possibile dare un'occhiata ai suini che vengono allevati con la stessa cura. Forse l'orario non era dei migliori, o forse è domenica anche per loro, ma questa grande mandria giaceva in un sonno profondo disturbato solo dal vento fresco di questa mattina. Se pensate agli allevamenti di vacche e suini come posti maleodoranti, sporchi e mal gestiti posso assicurarvi che non ho mai visto in vita mia degli animali cosi puliti e cosi ben tenuti.
Quando acquistate un prodotto, ovunque voi siate e qualunque cosa sia, non chiedetevi solo come viene fatto, ma fatevi le giuste domande su cosa c'è dietro alla materia prima. Soprattutto in cibi di origine animale cercate di arrivare alla fonte del prodotto e se potete usate queste occasioni per constatare in prima persona cosa succede dietro le quinte... |
Marco FurmentiCuoco e Dottore in Scienze Gastronomiche Archives
Aprile 2018
Categories
Tutto
|