C'era una volta una fossa, o meglio... tante fosse. E a dire il vero c'erano e ci sono ancora. Sono li, dopo centinaia di anni a Sogliano al Rubicone e continuano ad essere una culla per il lungo riposo del Formaggio di Fossa. Come le idee migliori è nata per caso. Nel tentativo di nascondere le cibarie dalle incursioni degli invasori, i contadini capirono che, a lungo andare, la fossa non solo conservava i cibi, ma li avvolgeva e li trasformava in qualcosa di nuovo, diverso, estasiante e intrigante. Un processo empirico se vogliamo, ma che col tempo è diventato uno strumento insostituibile nelle mani dei produttori. Oggi le fosse di Sogliano non raccolgono più alimenti di svariata natura, ma solo formaggio... e che formaggio! Forse poco importa che abbia il marchio DOP, l'importante è che sia vaccino, di pecora o un mix di entrambi e che venga posto per il giusto tempo all'interno di questi scrigni sotterranei. Una volta pronte le forme "base", dopo circa tre mesi possono essere racchiuse nel loro personale sacchetto di cotone e impilati in altri sacchi assieme alle altre prima di incontrare i profumi della fossa. E poi?... e poi ci vuole un po' di magia e del tempo, per fare in modo che tutte le forme parlino fra di loro, si adattino al luogo e lascino che la temperatura e l'umidità della fossa facciano il loro lavoro per trasformare dei formaggi già eccellenti nel Formaggio di Fossa che ancora oggi possiamo apprezzare. Non è una cella, non è un frigo, ma è una fossa... Un luogo che sta a contatto con la terra e la roccia del sottosuolo, che risente del clima esterno e in base al tempo si modifica. Se fa caldo, sprigiona umidità, se fa freddo, al contrario, risulta più secca. E non dimentichiamo la paglia! Dieci centimetri di paglia di grano difendono il formaggio dall'umidità e conferiscono sapori unici, soprattutto a quelle forme fortunate che vi sono a contatto. Non pensiate poi che basti una notte perchè la magia faccia il suo effetto, nemmeno giorni, ma mesi: una lenta metamorfosi accompagnata dal ticchettio del tempo penetra la sottile maglia di cotone delle forme e agisce inesorabile realizzando qualcosa che solo la natura è in grado di fare. Una natura meravigliosa, quella intorno a Sogliano, forse poco conosciuta, ma che è madre di questa magica tecnologia della maturazione del formaggio in fossa.
Una realtà ancora contadina incastonata in un territorio unico nel suo genere a due passi dalla romagna più conosciuta e affollata. Definirla antica e magica è l'unico modo per cercare di trasmettervi le meraviglie che qui vi abbiamo trovato...
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Il passaggio dalle città caotiche e frenetiche al mondo idilliaco delle colline e della campagna non è mai cosa semplice. Un buon bicchiere di vino, può essere un valido motivo per raggiungere queste terre. Una macchina fotografica atta all'uso, un'allegra e sorridente romagnola al mio fianco e due ciceroni a farci da guida fra gli splendidi edifici di Solopaca, alla ricerca della storia di questi territori e della cultura vitivinicola della regione. Bastano pochi sguardi ai vecchi palazzi e alle vie strette del borgo per capire quanto siamo distanti dal capoluogo campano. Anche il clima è diverso: c'è il sole che asciuga le foglie dei vigneti, ma un vento freddo ci consente di godere di una stagione meravigliosa come l'autunno. Solopaca è un luogo dove il tempo si è fermato. Sono rimasti in pochi a godere quotidianamente delle bellezze del posto. Tutti si conoscono e anche i nostri accompagnatori salutano con entusiasmo ogni singola persona che si appresta a girare l'angolo di una strada. Qualche vecchietto qui e là, le poche botteghe aperte e questa architettura fuori dal tempo rendono il borgo magico e malinconico allo stesso tempo. Quasi sopraffatti dalla bellezza del luogo, abbiamo scordato il motivo della nostra visita: la Cantina di Solopaca. Lasciamo dunque la piccola strada cittadina per dirigerci nel mondo dell'enologia locale. Guidati da Almerico e Pasquale, ci siamo diretti verso la cantina armati di curiosità e intraprendenza. Al nostro arrivo, uno spettacolo meraviglioso... Strutture imponenti, ma eleganti, accarezzate da un via vai continuo di acquirenti pronti a farsi coccolare dai loro acquisti enologici presi direttamente dal produttore. Basta una rapida occhiata al punto vendita per capire la vision della cantina. Sono passati ormai cinquant'anni da quando venticinque produttori diretti decisero di fondare una Cantina Sociale per far fronte ad un periodo storico non proprio facile per la viticoltura campana... e i cambiamenti sono tangibili. "Il termine cantina sociale non ci appartiene più come un tempo, o meglio, vorremmo cercare di distaccarci da un pensiero comune secondo cui la cantina sociale raccoglie un po' di tutto e produce dei vini di qualità più o meno discutibile". Queste sono le parole di Pasquale che con lungimiranza ha inquadrato il futuro della cantina. Basta guardarsi intorno per capire qual è il potenziale di questa impresa. Non parliamo solo delle dimensioni, ma anche della cura con la quale avvengono i processi produttivi, dal conferimento delle uve fino all'imbottigliamento delle diverse etichette. La parte che io e la mia compagna di viaggio aspettavamo con ansia però, stava sicuramente sotto in nostri piedi. La curiosità di intraprendere la visita alle sale di maturazione e invecchiamento dei vini nelle botti di legno è sempre stato il momento più ambito. Come tanti soldati sull'attenti, le botti imponenti troneggiano ai due lati della cantina in un riposo fatto di legno e tempo. Questa atmosfera surreale a tratti mistica, viene per un attimo ad incrinarsi al racconto struggente di Almerico e Pasquale che, partendo da una bottiglia infangata, ripercorrono il lungo cammino che ha portato la Cantina di Solopaca, colpita da un'alluvione, a ritornare in piedi più viva che mai. "Sono stati momenti difficili", afferma Almerico "Ma la solidarietà della popolazione ci ha permesso di rimetterci in carreggiata. L'idea di mettere in vendita le bottiglie infangate, come simboli della lotta dell'uomo contro le asperità della natura, è stata la chiave vincente". Non esiste modo migliore di comprendere un territorio e le sue potenzialità se non assaggiando un vino del zona, servito nei luoghi dove viene prodotto e da mani esperte. In quelle poche gocce che riempiono il bicchiere è racchiuso il sole che bacia le colline, l'acqua purissima che scorre in queste zone, la fatica dei produttori e ogni singolo granello di argilla del terreno. Quando Pasquale ci disse di voler abbandonare l'idea della cantina sociale, non avevamo ben chiara l'idea del prodotto che fosse in grado di realizzare. Profumati al naso, dai sentori delicati e fruttati del Falanghina, fino a quelli più complessi e balsamici dell'Aglianico. Molto puliti in bocca, corposi, lunghi, estasianti: è un territorio che si sprigiona in bocca.
Degni dei premi nazionali e internazionali più alti e ottimi per soddisfare anche i palati più raffinati. Per uno come me che viene da una regione conosciuta nel mondo per i suoi vini, accogliere nel proprio portfolio di conoscenze dei prodotti come quelli della Cantina di Solopaca è stata un'esperienza unica. Essere poi accompagnati da persone competenti che vivono il vino quotidianamente è un motivo in più per spingersi ad intraprendere viaggi del genere. Avere a fianco persone, come la mia cara romagnola, che condividono la passione per le nuove scoperte in ambito gastronomico, permette di rendere ogni momento indimenticabile. “Ricordati! Quando vai al sud piangi due volte: una volta quando vai e una quando torni”. Questa è una tiritera che ha fatto storia e devo ammettere che è stato difficile non pensarci nel corso di questo viaggio nelle terre campane. Tre giorni sono pochi per innamorarsi e per odiare un luogo, questo lo ammetto, però né l’andata verso Napoli né il ritorno a casa sono riusciti a strapparmi un pianto malinconico. Eppure le lacrime ci sono state… Le ho viste, le ho percepite e incredibilmente, sono riuscito ad assaggiarle. Non parlo solo di quelle lacrime fatte di acqua e sale che cadono dagli occhi in una giornata storta, ma di qualcosa di più, che ho percepito attraverso il cibo, il vino e le persone incontrate in questi territori. Città meravigliosa Napoli, indescrivibile da uno che non ha mai varcato quella invisibile linea che separa il nord d’Italia dal sud del mondo. Frenetica, a tratti chiassosa come una Milano nell’ora di punta, magica come la Venezia della Serenissima e prepotentemente spinta sul mare come la mia cara Trieste. Non saprei raccontarla meglio di così… Allegra sì, movimentata pure, proiettata verso il futuro, ma ricca di paure, di malinconia, di lacrime appunto. Attraverso i lunghi vicoli addobbati a festa, troneggiano corni e cornetti di un rosso sangue atti a scacciare la sfortuna. Nemmeno le migliaia di statue dei presepi sembrano gioire per l’arrivo di Nostro Signore: appaiono tristi nei loro visi grotteschi modellati a regola d’arte dagli artigiani del luogo. Nello splendore degli abiti e della loro fattura, non sembra trasparire la gioia del lieto evento. Ma tutti ridono a Napoli, tutti gridano e tutti mangiano, come se fosse sempre festa. Qui la scoperta delle lacrime più famose di Napoli. Da un soffice impasto di farina, uova e burro accuratamente mescolati e stressati nasce il Babà napoletano, emblema di una pasticceria italiana fatta di sostanza e pochi fronzoli. La lacrima? Sfumata, lenta, ma inesorabile se il babà è fatto a regola d’arte. È a base di rhum, il migliore, per conferire carica e carattere atte a scaldare il cuore. Lasciamo alle spalle la lacrima calda e avvolgente del Babà napoletano, per farci coccolare dalle dolci colline del Sannio. Un verde irreale, tanto che non pare lo stesso mondo del giorno prima. “Noi non c'entriamo niente con Napoli” afferma con voce ferma il nostro accompagnatore della Cantina di Solopaca… io ci credo. Fra i lunghi filari di vite ormai in cammino verso il riposo invernale, c’è il silenzio: solo il vento a disturbare l’inesorabile scorrere il tempo. Una cantina enorme, titanica per una zona fatta di piccoli borghi quasi abbandonati in provincia di Benevento. Curata nel dettaglio per dare soddisfazione al palato e all’occhio. Una storia interessante, quella della Cantina di Solopaca, ancora ben ancorata alla filosofia post-bellica della cantina sociale, ma che freme per volare lontano nel tempo e nello spazio. Falanghina, Aglianico, Moscato, Carrese del Sannio, Fiano, Greco e uvaggi di diverso genere accuratamente studiati soddisfano da cinquant’anni tutti i palati e tutte le tasche. Una qualità eccellente che si percepisce dalla cura nella presentazione, nell’ordine e soprattutto nelle parole di chi ci lavora quotidianamente. Una nota dolente… Qua e là delle bottiglie sporche, infangate… paiono proprio un errore, messe là a disturbare l’occhio. “Quelle bottiglie rappresentano uno dei nostri peggiori e migliori ricordi in questa cantina. Proprio un anno fa, una terribile alluvione ha colpito queste zone e la nostra cantina si è trovata completamente sommersa… Tutto sembrava perduto, fino a quando abbiamo deciso di usare proprio quelle bottiglie infangate come simbolo di una dura lotta per riprenderci. Non ci pareva vero, ma nel giro di pochi giorni fummo sommersi di ordini e il nostro punto vendita fu letteralmente invaso dalla gente del luogo che decise di acquistare i nostri prodotti per darci una mano a risollevarci: e così è stato! Ora però parliamo d’altro, che al solo pensiero mi vengono le lacrime agli occhi”. Queste sono le parole di Almerico e Pasquale, i nostri personali ciceroni in cantina… e queste sono le lacrime che ho percepito. Non sono stato in grado di vederle scorrere, ma le loro parole ne erano intrise. Lacrime di tristezza e gioia allo stesso tempo che oggi scorrono ancora dentro quelle bottiglie sporche di un fango scuro e fatto di speranze. Napoli, cara Napoli, allegra, vitale, superstiziosa e pia, a tal punto da aver dedicato uno degli uvaggi più famosi al Cristo. Alle pendici di un Vesuvio eterno, una terra nera ospita le vigne della Cantina del Vesuvio appoggiate dolcemente al fianco del vulcano con lo sguardo rivolto verso il golfo. Terra, fuoco, acqua e vento hanno reso il terroir di questa terra unico al mondo e non ne siamo consapevoli solo noi. “La leggenda vuole che Gesù Cristo, seduto sulla bocca del Vesuvio riconobbe in questa area una zona del paradiso rubatagli da Lucifero nel corso della sua caduta agli inferi… Tanta è stata la commozione nel vedere questo splendore, che gli cadde una lacrima che diede origine ai vigneti e così al vino: il Lacryma Christi”. Questa lacrima è da bere, accompagnata dal pane e dall’olio, in una triade mediterranea a tratti divina. Una lacrima celeste, per un olio santificato dalla purezza di queste terre su un letto del pane che dà la vita… La stessa vita che nasce dalle pendici del Vesuvio e che lui stesso è riuscito a portarsi via. Basta passare qualche ora ad Ercolano per capire come questa terra abbia dato tanto all’uomo per nutrirsi, ma che è in grado di toglierci tutto in un istante. Non esistono più il pane, l’olio e il vino fra quei mattoni, ma solo un infinito silenzio… E le lacrime? Nemmeno quelle ci sono più: sono finite, si sono asciugate nel tempo e a noi non resta che immaginarle scorrere dagli occhi della gente che ha vissuto la paura di perdere tutto. Non ho pianto sul treno d’andata… non ho pianto sul treno di ritorno, ma ora resto disteso su un letto dopo un viaggio intenso, a tratti mistico, fatto di gente, cibo, vino e soprattutto lacrime…
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Marco FurmentiCuoco e Dottore in Scienze Gastronomiche Archives
Aprile 2018
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