Improvvisare il cenone di capodanno non è mai stato così semplice. Un menù già bello che fatto pronto per essere realizzato nel corso di una cena o anche di un pranzo.
In fondo alla Scienza in cucina e l'arte di Mangiar bene, esiste un'intera parte dedicata a menù completi da proporre in caso di festività come il Natale,il Carnevale, il Ferragosto e naturalmente il Capo d'anno. Oggi, naturalmente, parleremo proprio del capodanno. Vediamo cosa propone Pellegrino Artusi per questa festività Capo d'anno Minestra in brodo Composto dei cappelletti di Romagna n. 7, senza sfoglia Fritti Cotolette imbottite n. 220 Umidi Bue alla brace n.298 con carote o cotolette coi tartufi n.312 Rifreddo Pasticcio di cacciagione n.370 Arrosto Anatra domestica e Piccioni n.528 con insalata Dolci Gateau a la noisette n. 564 - Dolce Torino n.649 Questo è il menù che abbiamo provato a realizzare che vi proporremo di seguito (ad eccezione del pasticcio di cacciagione). Spero sia di vostro gradimento. 7. CAPPELLETTI ALL'USO DI ROMAGNA Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco. Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180. Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta. Parmigiano grattato, grammi 30. Uova, uno intero e un rosso. Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace. Un pizzico di sale. Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl'ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera. Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d'uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato [figura01]. Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito. Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell'acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c'è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine. A proposito di questa minestra vi narrerò un fatterello, se vogliamo di poca importanza, ma che può dare argomento a riflettere. Avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su' libri i signori di Romagna non ne vogliono saper buccicata, forse perché fino dall'infanzia i figli si avvezzano a vedere i genitori a tutt'altro intenti che a sfogliar libri e fors'anche perché, essendo paese ove si può far vita gaudente con poco, non si crede necessaria tanta istruzione; quindi il novanta per cento, a dir poco, dei giovanetti, quando hanno fatto le ginnasiali, si buttano sull'imbraca, e avete un bel tirare per la cavezza ché non si muovono. Fino a questo punto arrivarono col figlio Carlino, marito e moglie, in un villaggio della bassa Romagna; ma il padre che la pretendeva a progressista, benché potesse lasciare il figliuolo a sufficienza provvisto avrebbe pur desiderato di farne un avvocato e, chi sa, fors'anche un deputato, perché da quello a questo è breve il passo. Dopo molti discorsi, consigli e contrasti in famiglia fu deciso il gran distacco per mandar Carlino a proseguire gli studi in una grande città, e siccome Ferrara era la più vicina per questo fu preferita. Il padre ve lo condusse, ma col cuore gonfio di duolo avendolo dovuto strappare dal seno della tenera mamma che lo bagnava di pianto. Non era anco scorsa intera la settimana quando i genitori si erano messi a tavola sopra una minestra di cappelletti, e dopo un lungo silenzio e qualche sospiro la buona madre proruppe: - Oh se ci fosse stato il nostro Carlino cui i cappelletti piacevano tanto! - Erano appena proferite queste parole che si sente picchiare all'uscio di strada, e dopo un momento, ecco Carlino slanciarsi tutto festevole in mezzo alla sala. - Oh! cavallo di ritorno, esclama il babbo, cos'è stato? - » stato, risponde Carlino, che il marcire sui libri non è affare per me e che mi farò tagliare a pezzi piuttosto che ritornare in quella galera. - La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: - Lascialo fare, disse, meglio un asino vivo che un dottore morto; avrà abbastanza di che occuparsi co' suoi interessi. - Infatti, d'allora in poi gl'interessi di Carlino furono un fucile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel baroccino e continui assalti alle giovani contadine. 220. COTOLETTE IMBOTTITE Formate delle cotolette di vitella di latte oppure di petti di pollo o di tacchino, tagliate sottili e, se tenete a dar loro una forma elegante, tritatele e riunitele dopo, schiaccian dole. Se trattasi di vitella di latte basteranno grammi 170 di magro senz'osso, per ottenerne 6 o 7. Soffriggetele, così a nudo, nel burro, salatele e mettetele da parte. Fate una balsamella con grammi 70 di farina, 20 di burro e 2 decilitri di latte e appena tolta dal fuoco, salatela, gettateci una cucchiaiata di parmigiano e un rosso d'uovo mescolando bene. Quando sarà diaccia spalmate con questa le cotolette da ambedue le parti alla grossezza di uno scudo pareggiandola colla lama di un coltello da tavola intinto nell'olio, poi immergetele nell'uovo frullato, panatele e rosolatele friggendole nell'olio o nello strutto. Servitele con spicchi di limone. 298. BUE ALLA BRACE Sarebbe il boeuf braisé dei Francesi. Procuratevi un bel tocco di carne magra e frolla e, dato che sia del peso di grammi 500 senz'osso, steccatelo con grammi 50 di lardone tagliato a lardelli grossi e lunghi un dito scarso, ma conditeli prima con sale e pepe. Fate un battuto con un quarto di cipolla di media grandezza, mezza carota e una costola di sedano lunga un palmo. Tritatelo all'ingrosso con la lunetta e mettetelo al fuoco con grammi 30 di burro e sopra al medesimo il pezzo della carne legato e condito con sale e pepe. Quando il battuto sta per consumarsi, bagnatelo per due volte con un gocciolo d'acqua fredda; consumata che sia e colorita la carne, versate due ramaiuoli di acqua calda, coprite la cazzaruola con foglio doppio di carta e fate bollire adagio finché la carne sia cotta. Allora passate il sugo, digrassatelo e rimettetelo al fuoco con un altro pezzetto di burro per dar maggior grazia alla carne e all'intinto, col quale potrete tirare a sapore un contorno di erbaggi, come sarebbero spinaci, cavoli di Bruxelles, carote, finocchi, quello che più vi piace di questi. 528. UCCELLI ARROSTO Gli uccelli devono essere freschi e grassi; ma soprattutto freschi. In que' paesi dove si vendono già pelati bisogna essere tondi bene per farsi mettere in mezzo. Se li vedete verdi o col brachiere, cioè col buzzo nero, girate largo; ma se qualche volta rimaneste ingannati, cucinateli come il piccione in umido n. 276, perché se li mettete allo spiede, oltreché aprirsi tutti durante la cottura, tramandano, molto più che fatti in umido, quel fetore della putrefazione, ossia della carne faisandée come l a chiamano i Francesi: puzzo intollerabile alle persone di buon gusto, ma che purtroppo non dispiace in qualche provincia d'Italia ove il gusto, per lunga consuetudine, si è depravato fors'anche a scapito della salute. Un'eccezione potrebbe farsi per le carni del fagiano e della beccaccia, le quali, quando sono frolle, pare acquistino, oltre alla tenerezza, un profumo particolare, specialmente poi se il fagiano lasciasi frollare senza pelarlo. Ma badiamo di non far loro oltrepassare il primo indizio della putrefazione perché altrimenti potrebbe accadervi come accadde a me quando avendomi un signore invitato a pranzo in una trattoria molto rinomata, ordinò, fra le altre cose per farmi onore, una beccaccia coi crostini; ebbene questa tramandava dal bel mezzo della tavola un tale fetore che, sentendomi rivoltar lo stomaco, non fui capace neppure di appressarmela alla bocca, lasciando lui mortificato ed io col dolore di non aver potuto aggradire la cortesia dell'amico. Gli uccelli dunque, siano tordi, allodole o altri più minuti, non vuotateli mai e prima d'infilarli acconciateli in questa guisa: rovesciate loro le ali sul dorso onde ognuna di esse tenga ferme una o due foglie di salvia; le zampe tagliatele all'estremità ed incrociatele facendone passare una sopra il ginocchio dell'altra, forando il tendine, e in questa incrociatura ponete una ciocchettina di salvia. Poi infilateli collocando i più grossi nel mezzo tramezzandoli con un crostino, ossia una fettina di pane di un giorno grossa un centimetro e mezzo, oppure, se trovasi, un bastoncino tagliato a sbieco. Con fettine di lardone, salate avanti e sottili quanto la carta, fasciate il petto dell'uccello in modo che si possa infilare nello spiede insieme col pane. Cuoceteli a fiamma e se il loro becco non l'avete confitto nello sterno, teneteli prima fermi alquanto col capo penzoloni onde facciano, come suol dirsi, il collo; ungeteli una volta sola coll'olio quando cominciano a rosolare servendovi di un pennello o di una penna per non toccare i crostini, i quali sono già a sufficienza conditi dai due lardelli e salateli una volta sola. Metteteli al fuoco ben tardi perché dovendo cuocere alla svelta c'è il caso che arrivino presto e risecchiscano. Quando li mandate in tavola sfilateli pari pari, onde restino uniti sul vassoio e composti in fila, che così faranno più bella mostra. Quanto all'arrosto d'anatra o di germano, che sa di selvatico, alcuni gli spremono sopra un limone quando comincia a colorire e l'ungono con quell'agro e coll'olio insieme raccolto nella ghiotta. 649. DOLCE TORINO Formate questo dolce sopra un vassoio o sopra un piatto e dategli la forma quadra. Savoiardi, grammi 100. Cioccolata, grammi 100. Burro fresco, grammi 100. Zucchero a velo, grammi 70. Un rosso d'uovo. Latte, cucchiaiate n. 2. Odore di zucchero vanigliato. Tagliate i savoiardi in due parti per il lungo e bagnateli col rosolio, oppure, il che sarebbe meglio, metà col rosolio e metà con l'alkermes, per poterli alternare onde facciano più bella mostra. Lavorate dapprima il burro con lo zucchero e il rosso d'uovo; ponete al fuoco la cioccolata, grattata o a pezzetti, col latte, e quando sarà bene sciolta versatela calda nel burro lavorato, uniteci l'odore e formate così una poltiglia mescolando bene. Disponete sul vassoio un primo strato dei detti savoiardi e spalmateli leggermente con la detta poltiglia; indi sovrapponete un altro strato di savoiardi, poi un terzo strato ancora, spalmandoli sempre leggermente. Il resto della poltiglia versatelo tutto sopra ed ai lati pareggiandolo meglio che potete. Il giorno dopo, prima di servirlo, lisciatelo tutto alla superficie con la lama di un coltello scaldata al fuoco, e in pari tempo, piacendovi, ornatelo con una fioritura di pistacchi oppure di nocciuole leggermente tostate, gli uni e le altre tritate finissime. Grammi 40 di nocciuole pesate col guscio o grammi 15 di pistacchi potranno bastare. Già saprete che questi semi vanno sbucciati coll'acqua calda. Una dose per sei o sette persone.
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Qual è una delle gioie migliori del Natale? Stare seduti su un comodo divano, con una calda coperta, magari un caminetto, un affettuoso animale domestico che appoggia il capo sulle vostre ginocchia e... una dolce fetta di Panettone in mano. Ebbene sì, anche in un'era di innovazione e modernità, il Panettone scalda i cuori durante la festività natalizia. Sogno di molti, è quello di riuscire a realizzare in casa questa piccola delizia lievitata, ma purtroppo, si tratta probabilmente di uno dei dolci più complessi da realizzare a livello casalingo.
Non bisogna temere le lunghe ricette con procedimenti laboriosi che richiedono anche due giorni di lavorazione: oggi, esistono preparazioni facilitate, anche per coloro, come me, che vogliono realizzare qualcosa con le loro mani. Se voleste rendere la vostra sfida ancora più interessante, perchè non accontentare un vostro amico/parente celiaco? Anche in questo caso, l'importante, è trovare una buona ricetta. Questa che vi presento, l'ho trovata in un mio registro: ricordo di averla presa dalla rivista Celiachia Notizie, ma purtroppo non saprei citarne la fonte. Difficile, è una parola che calza a pennello in questo caso: se il classico Panettone dà spesso problemi di lievitazione, pensate un Panettone che non prevede il glutine come rinforzo strutturale... Dopo un pomeriggio di lavoro, ho ottenuto due Panettoni, non particolarmente alti - la lievitazione è riuscita, ma purtroppo i cartoncini per la cottura erano ben più grandi di quelli consigliati - ma deliziosi, con sensazioni rustiche lontane da questi sapori industriali che siamo abituati a gustare. Mettetevi alla prova! Ingredienti
Procedimento
Le farine indicate fra gli ingredienti, non sono state scelte a caso. Questa ricetta è stata testa con questi prodotti, per cui una qualsiasi sostituzione porterebbe ad un risultato diverso. Dopo aver intrapreso un piccolo viaggio in un mondo dedicato al fegato e alla lingua, veniamo alla volta della maestosità della trippa. Questo prodotto, senza rivali, rientra a pieni voti nella gastronomia territoriale italiana e, al contrario di lingua e fegato, è molto più facile da reperire sia nei supermercati, sia a livello ristorativo. La trippa, comprende i prestomaci dei ruminanti (bovini). Questi animali, infatti, non possiedono solo uno stomaco come ad esempio i carnivori e gli onnivori come l'uomo, ma ne possiedono diversi. Singolare caratteristica, a dire il vero, ma molto utile, in quanto gli permette di digerire la cellulosa e fermentarla in modo da ottenere tutti i composti di cui hanno bisogno: l'uomo, ad esempio, non è in grado di ricavare energia dalla cellulosa al contrario degli erbivori. Questi prestomaci (omaso, abomaso, rumine, reticolo) vengono utilizzati per la produzione della trippa, sopratutto reticolo e rumine. Molte persone, sono convinte che la trippa sia un piatto di difficile digestione a causa della sua natura. In realtà, questo alimento, risulta pesante a causa dei condimenti ai quali viene associata. Questa è la composizione nutrizionale della trippa bovina per 100g di parte edibile:
Se volete acquistare una buona trippa, affidatevi al vostro macellaio di fiducia, che sicuramente potrà consigliarvi al meglio. Diffidate dalle trippe troppo chiare e preferite quelle "grigie" o scure, ovvero quelle che hanno ricevuto pochi trattamenti di lavorazione (lavata e scottata) e non sono state sbiancate e bollite. Scegliere una tipologia di trippa che ha subito diversi trattamenti, influenza naturalmente anche tutti i tempi di preparazione delle vostre ricette: una trippa scura e scottata, avrà tempi di cottura molto più lunghi rispetto ad una trippa sbiancata e bollita. In questo articolo, non vi consiglierò come cucinarla (ne avremo tutto il tempo), ma vi assicuro, che non basterebbero cento post per descrivere le migliaia di varianti regionali che questo piatto ci può offrire. Se avete piacere, però, vi consiglio di andare a cercare in questo blog, la ricetta "Trippa alla corsa" che pubblicai qualche tempo fa... quello è solo un assaggio, il resto a breve! Come se non fosse bastata un'annata pessima per olivicoltura, che in alcune zone della penisola ha toccato dei cali del 40% sulla produzione di olio a causa della mosca dell'olivo, anche il settore dell'apicoltura si trova a dover combattere un invasore che ha già fatto sentire la propria presenza nel Sud Italia, soprattutto in Calabria.
Aethina tumida, questo il nome del killer dell'apicoltura. Si tratta di un coleottero di piccole dimensioni (6 x 2 mm), che proviene dall'Africa Meridionale. Questo fastidioso insetto, si nutre del polline che riesce a reperire facilmente nelle arnie e nei favi. All'inizio del suo ciclo vitale, le uova assomigliano molto a quelle delle api, per cui non è sempre così facile riuscire ad identificarle. Le larve, invece, possiedono caratteri similari a quelle delle tarme della cera, se non fosse per dei piccoli arti nella parte anteriore. Questo stato fisiologico è sicuramente quello più dannoso: infatti è proprio nello stato larvale che il coleottero distrugge le cellette costruite dalle api per nutrirsi di polline e purtroppo anche di uova. Come se non bastasse, il loro ciclo vitale continua: raggiungono la porta dell'arnia e si lasciano cadere sul terreno e, dopo una periodo di metamorfosi, si trasformano in coleotteri dotati di ali che raggiungono nuovamente l'arnia alla ricerca di cibo e il ciclo ricomincia. I danni che può provocare questo infestante, non vanno tuttavia solo a scapito dell'arnia, ma anche del miele stesso, se l'apicoltore riesce ad ottenerne. Le feci di questo coleottero, infatti, causano il cambiamento di colore, le larve causano la comparsa di fenomeni fermentativi nel miele e di schiume. Cosa più tremenda, però, è che grandi infestazioni, causano lo sciamare delle stesse api. Probabilmente la domanda che vi starete ponendo è: "Esiste un rimedio? Un modo per evitare la distruzione dell'arnia?". Fortunatamente, esistono metodologie di natura chimica e non, che possono venirci in contro nella lotta a questo parassita. Uno dei più usati è sicuramente l'utilizzo del paradiclorobenzene (PDB), ovvero un composto altamente nocivo che serve a proteggere i favi immagazzinati vuoti. I rimedi naturali, invece, prevedono l'utilizzo di ferormoni, acidi organici ed estratti vegetali. Purtroppo un metodo, piuttosto drastico, consiste nel bruciare l'arnia. L'allarme è già scattato in Calabria e in Sicilia e, da metà Settembre, sono già quattro i casi rilevati, ma il Ministero della Salute si è messo al lavoro per attuare i controlli nelle zone colpiti con grande tempestività. In questo momento, il destino dell'apicoltura e del mercato del miele italiano è nelle mani degli esperti apicoltori e del Ministero per prevenire dei disastri di enorme entità che andrebbero a colpire un settore già in difficoltà. Immagini tratte da:
Cinque giorni per assistere ad uno degli eventi di massimo significato nel vasto repertorio dell'enogastronomia e della lotta alla salvaguardia della biodiversità alimentare
Dal 23 al 27 Ottobre, Torino si è tinta dei colori più accesi che il mondo alimentare potesse offrirle. Centinaia fra espositori, piccoli produttori e contadini si sono riversati nei saloni del Lingotto per dar vita ad un evento inimitabile come appunto Il Salone Internazionale del Gusto e Terra Madre. Un luogo, questo, dove è fondamentale capire che, fortunatamente, non tutti gli uomini sono uguali e che ognuno di noi ha qualcosa da imparare. Oltre alla gastronomia Italiana, largo spazio è stato dato anche quella internazionale che ha presentato le sue piccole-grandi eccellenze, che in molti casi, sono vicini all'estinzione. Ma è a questo che serve Terra Madre, a ricordarci che in ogni angolo del mondo esistono piccoli produttori che lottano ogni giorno contro le grandi aziende e le multinazionali, per far arrivare il loro contributo sui mercati: un contributo che Slow Food definisce Buono, Pulito e Giusto. Non solo produrre per sopravvivere, ma produrre qualcosa di buono che piaccia, che non sfrutti le risorse della Terra in modo violento e non rinnovabile, limitando le emissioni di gas serra, l'uso di sostanze inquinanti per l'agricoltura e l'allevamento, in modo da non compromettere il benessere animale e il benessere umano. Questi e molti altri, sono gli aspetti che hanno accompagnato i produttori al Salone e li accompagnano quotidianamente nel loro lavoro contro l'estinzione. Se non tutti gli uomini sono uguali, significa anche che sfruttano l'ambiente in cui vivono in modo diverso... Un ambiente che va utilizzato diversamente in quanto "diverso" per sua natura. Imporre una stessa coltura in zone diverse del mondo, estirpando quelle autoctone, porta alla morte di quella che è la nostra biodiversità. Per questo, a difesa, della biodiversità mondiale, Slow Food ha istituito nel 1996 e portato al Salone, l'Arca de gusto. Come Noè salvò dal diluvio due animali per specie in modo da preservare la fauna del mondo e permetterne la riproduzione, anche l'Arca del gusto, è costantemente alla ricerca di tutti quei prodotti vegetali, animali, trasformati che rischiano di non trovare più un posto nelle produzioni mondiali. Ad oggi, l'Arca contiene 1600 fra ortaggi, frutti, animali, formaggi, prodotti trasformati e molto altro. Questo è il luogo dove nasce una magia. In ogni momento è possibile saltare da un continente all'altro in un viaggio avvincente nel quale è possibile conoscere e spesso assaporare curiosità provenienti da ogni angolo del nostro globo. Nella stessa giornata potrebbe capitavi, di assaggiare il Capocollo di Martina Franca e il prosciutto Serrano spagnolo, il miele delle api nere siciliane e quello prodotto da tribù aborigene sulle coste dell'Australia, lo strolghino di Culatello e il salame d'oca Polacco. Senza contare le bevande come the, sidri, superalcolici, bevande analcoliche, a base di frutta e vini. Cioccolato, pesce, prosciutto, formaggio, birra... non manca proprio niente. Nulla da togliere alla parte dedicata all'Italia con tutte le sue eccellenze, le tradizioni gastronomiche dimenticate, le curiosità e i Presidi sui quali l'Italia non è seconda a nessuno. Tre padiglioni per venti regioni italiane per accogliere migliaia di visitatori che in questi giorni percorreranno centinaia di chilometri a piedi all'interno del Salone alla ricerca dell'esperienza che gli permetterà di tornare a casa arricchiti. Per una volta il Mondo alimentare è alla portata di tutti e questa è un'occasione da non farsi scappare. Il tempo in cui il detto "del maiale non si butta via niente" è volto al termine. Non stiamo parlando di cosce, spalle, schiena, pancia e guance: tutti questi sono taglie che, oggigiorno, l'industria seleziona più o meno accuratamente e porta quotidianamente sulle nostre tavole sotto forme diverse, dalla carne fresca al salume.
Stiamo parlando, di quello, che in gergo gastronomico prende il nome di quinto quarto, ovvero, tutte le parti considerate meno nobili, di un animale da macello, ovino, caprino, suino, bovino che sia. Nella fattispecie il quinto quarto comprende: fegato, lingua, rene, cuore, trippa e cervello (negli animali per i quali è consentito il consumo). Questi sono prodotti che ormai vengono segregati in un piccolo angolo del banco della macelleria per pochi curiosi, nostalgici e cultori della cucina tradizionale. Perchè non siamo più avvezzi a questo tipo di alimenti? La crescita economica dei paesi occidentali, probabilmente ha cambiato la nostra mentalità. Cucinare e portare in tavola questi "resti" della macellazione non è mai stato un simbolo di abbondanza e benessere. Lo spettro della fame che aleggia attorno al quinto quarto ce lo siamo lasciati alle spalle e difficilmente vorremmo averci ancora a che fare. Chi di noi, come il sottoscritto, non ha vissuto in un periodo in cui fegato, cuore e reni avevano un posto d'onore nelle case, ne rimane disgustato per la sua natura grezza, quasi sudicia. Probabilmente è solo un problema d'informazione... Se le nuove generazioni sapessero esattamente come si ricava quel salame che mangiano volentieri o quei wurstel che fanno tanta tendenza forse guarderebbero con un occhio di riguardo le vecchie frattaglie. Come però abbiamo già detto, fortunatamente, è possibile trovare ancora questi "scarti" nei supermercati e nelle macellerie. Quelle che andremo a presentare, sono due parti, a mio avviso molto versatili, che l'Artusi ha sapientemente inserito nella sua opera con non meno di dieci preparazioni diverse per ognuna. Nelle prossime settimane vorrei dedicare parte delle uscite al quarto dimenticato con la speranza di riaccendere la curiosità su queste parti anatomiche e sull'universo che ci sta attorno. Cominciamo intanto ad introdurre due di questi tagli. Di chi stiamo parlando? Sua Eccellenza la Lingua Non serve che vi dica da dove viene estratta la lingua, vi basti sapere che è un ottimo ingrediente indispensabile per un bollito. Sufficientemente grassa, con una consistenza compatta e leggermente elastica: impossibile confonderla con altri tagli di carne, anche una volta tagliata e impiattata. Per preparala, basta bollirla per circa 2 ore e poi metterla sotto l'acqua fredda per poterla spellare dal suo rivestimento bianco. Delicatissima, solitamente viene servita accompagnata dal salse adatte alla carne bollita. Sua Maestà il Fegato Per quanto riguarda il fegato invece il discorso è più complesso. Il suo sapore caratteristico tendente al metallico, per molti, non è così piacevole. A parere mio, è il protagonista di preparazioni che si amano o si odiano: non esiste una via di mezzo. Tutte le ricette prevedono una cottura molto rapida in modo tale da non renderlo secco e indigesto. La tradizione vuole oltretutto che venga consumato immediatamente: non tentate di riscaldarlo o di ricuocerlo, otterrete una carne dura e stopposa. Pur non essendo un piatto molto consumato, è molto utile per tutti coloro che, come il sottoscritto, soffrono di carenze di ferro. Il sogno di ogni goloso sul pianeta? Rendere più dolce qualsiasi pasto e qualsiasi pietanza.
Siamo sicuri che sia qualcosa di irrealizzabile? In realtà no. Madre natura fortunatamente ha pensato anche a questo creando una pianta del tutto fuori dal comune alla quale è stato attribuito il nome di Frutto del Miracolo. Questo singolare frutto ha una proprietà unica nel suo genere: permette infatti di rendere dolce quasi cibo acido e amaro che viene assaporato dopo l’esposizione della bocca alla sua polpa mucillaginosa. La pianta, che risponde al nome di Synsepalum dulcificum, è tipica dell’Africa occidentale tropicale e viene ampiamente utilizzata dalle popolazioni del posto per rendere più palatabile il pane ottenuto da un impasto acidulo e rendere dolce il vino e la birra ottenute dalla palma. Il segreto di questa bacca? Una glicoproteina scoperta nel 1968 in Giappone alla quale è stato dato il nome di Miracolina che agisce nella nostra bocca ingannando i recettori del gusto e lo stesso cervello che crede di assaporare lo zucchero più dolce anche quando viene ingerita una fetta di limone. Negli ultimi anni questo prodotto ha fatto molto parlare di sé per questa sua fantastica proprietà edulcorante cadendo sotto la lente di numerose aziende alimentari che potrebbero utilizzarlo come prodotto innovativo ipocalorico. Non solo le aziende, ma anche la ristorazione ha puntato l’occhio sulle proprietà del frutto. Molte cucine negli USA e in Giappone propongono già menù innovativi totalmente privi di zuccheri adatti a diabetici e a persone a dieta oltre che a golosi e curiosi. Se siete fra quei curiosi, sappiate che sono facilmente reperibili sul web i semi della pianta, le bacche e anche delle pastiglie che contengono il principio attivo. Simile ad una ciliegia, di un rosso vivo quasi abbagliante, questa bacca può trasformare un pasto banale in un’esperienza inimitabile. Provare per credere. Copyright immagini: - laleva.org - the-scientist.com - http://mkalty.org/miracle-fruit/ Questa mattina mi sono imbattuto in un articolo tratto da un sito web piuttosto singolare. Si trattava di un rimedio ai ben noti sintomi del cosiddetto "post-sbornia" ritrovato in un antico libro di cucina araba risalente a quasi mille anni fa. Più del rimedio stesso, mi ha incuriosito questo "libro di cucina" di cui non avevo mai sentito parlare. Mi sono informato, ho fatto qualche ricerca ed ecco quello che ne è risultato. Si pensa che questo libro risalga al XIII secolo, più precisamente intorno al 1226 d.C. L'unica copia esistente è stata ritrovata in Turchia ed è stata riprodotta nel 1969. L'autore del manoscritto originale, Mohammed bin Hassan al-Baghdadi di Baghdad morì nel 1239 verso la fine della dinastia degli Abbasidi. Molto poco si sa di quest'uomo: oltre alla data di morte, si presume che la stesura del manoscritto gli fu commissionata e che avrebbe dovuto contenere i piatti preparati per il Califfo, i Signori e i ricchi del tempo. Si pensa inoltre che molte ricette provengano da scritti più antichi di quello di cui stiamo parlando. Il libro è composto da cinque capitoli che trattano di utensili di cucina, spezie, le otto tipologie di gusto esistenti, gli effetti del cibo guasto, rimedi al cibo bruciato, settantanove capitoli di ricette, venti capitoli sull'etichetta, venticinque capitoli sulle proprietà mediche del cibo. Ad oggi questo manoscritto che porta il nome di Kitab al-Ṭabīh (libro di cucina) è considerato uno dei più antichi reperti che testimoniano la cucina araba. Comprende tutte le tipologie di alimenti utilizzate durante la dinastia degli Abbasidi e numerose preparazioni mediche in uso all'epoca. Include più di 600 preparazioni, tra cui la sopra citata cura per la sbornia, elisir sessuali e via dicendo. Più recentemente, questo scritto è stato tradotto in inglese da Nawal Nasrallah, autrice del già noto "delizie dal Giardino dell'Eden" ed è facilmente reperibile on-line con il nome di "Annals of the Caliphs'Kitchens". In questa bella giornata estiva, impareremo qualche nozione e qualche piccola tecnica fondamentale utile a tutti coloro che, come il sottoscritto, volessero cimentarsi nella caseificazione casalinga.
Per prima cosa bisogna capire quali sono gli attrezzi del mestiere: - Una pentola capiente, preferibilmente di acciaio. - Un termometro da cucina. - Un contenitore piuttosto alto e forato. - Una frusta. - Un canovaccio. Per quanto riguarda gli ingredienti, abbiamo bisogno di: - 3L di latte crudo (o se preferite pastorizzato alta qualità). - Caglio (reperibile in farmacia). - Aceto di vino bianco. - Olio di semi. - Acqua. - Sale. Una regola fondamentale da seguire, è l'igiene. Tutte le attrezzature che dovrete utilizzare vanno lavate accuratamente o se preferite, potete anche bollirle in acqua in modo da ridurre i rischi di contaminazione del prodotto. Ricordatevi di lavarvi accuratamente le mani ogni volta che potete. Se avete deciso di utilizzare del latte crudo, vi ricordo che quello disponibile presso le latterie deve essere consumato previa bollitura e questo vale anche per la produzione di formaggio. La pastorizzazione casalinga del latte può essere attuata anche a temperature leggermente più basse di quella di ebollizione onde evitare che il latte acquisti cattivi odori. La combinazione tempo/temperatura che ho utilizzato è stata 75-80°C x 1m ca. Una volta pastorizzato, fatelo raffreddare portandolo alla temperatura di 36-38°C. A questo punto aggiungete il caglio secondo le indicazioni riportate sul prodotto ricordandovi di mantenere la temperatura intorno ai 37°C. Se in pochi minuti il latte non si rapprende allora aggiungete ancora del caglio. In caso contrario lasciate riposare il latte per una ventina di minuti. A questo punto potete rompere la cagliate con la frusta. La rottura deve permettere la creazione di piccoli grumi con dimensioni variabili in base al tipo di formaggio che vogliamo ottenere. Quello in questione avrà una stagionatura di circa 10gg, quindi dei granelli grandi come chicchi di mais dovrebbero andare bene. Ricordatevi che ci vuole un po' di pratica per queste operazioni (Errare humanum est). Scolate la cagliata dentro il canovaccio e cominciate a strizzare in modo tale da far fuoriuscire il siero (conservatelo mi raccomando! Ci servirà per la ricotta). Ora prelevate il composto e inseritelo nel contenitore forato ponendovi sopra un peso. Lasciate spurgare il formaggio per 2h circa in frigorifero. L'operazione successiva è la salatura. Questa operazione può avvenire sia a secco che in umido. Quella che vi presento, prevede l'utilizzo della salamoia. Per prepararla usate queste dosi: 1L di acqua molto fredda x 150-160g di sale fino da cucina. Riponete il formaggio in un contenitore assieme alla salamoia e lasciate riposare in frigo per circa un'ora e mezza completamente coperto. Siamo pronti per la stagionatura! Procuratevi un piatto fondo e una griglia in modo tale che durante questo periodo, il formaggio continui a perdere liquidi senza che questi ristagnino a contatto col prodotto. Preparate poi un'emulsione fatta da aceto di vino e olio. Con questo composto, massaggerete leggermente il formaggio ogni giorno in modo tale da prevenire l'insorgenza di muffe. Ora non vi resta altro che riporlo nel ripiano più alto del frigo o magari in una cantina in cui la temperatura non superi gli 8-10°C. L'ultimo ingrediente? Il tempo. Mi aspetto di degustare questa ricetta fra 10gg quindi ci rivedremo sempre qui venerdì 29! Procediamo intanto con la produzione della ricotta. Prendete il siero avanzato e aggiungetevi 150ml di latte per ogni litro di latte usato inizialmente, un cucchiaino di sale e portatelo a 95°C. A questo punto il latte dovrebbe cominciare a creare nuovamente dei grumi. Se volete aiutare il processo, basta aggiungerci un cucchiaio di aceto di vino. Fate raffreddare il latte per qualche minuto e cominciate a prelevare i grumi con un colino per eliminare l'acqua e riponetelo in un contenitore. Lasciate raffreddare in frigo e consumate entro 1gg. Queste sono alcune delle regole fondamentali per procedere alla preparazione di formaggio e ricotta con metodologie casalinghe. Non escludo che in futuro possano arrivare nuovi post sull'argomento con preparazioni più complesse.... Per il momento vi ricordo l'appuntamento fra 10 giorni! |
Marco FurmentiCuoco e Dottore in Scienze Gastronomiche Archives
Aprile 2018
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