Sapere e sapori: quando le parole valgono più di un libro. Aceto di ciliegia di Leo Bozzetto 16/3/2016 Quante cose puoi imparare attraverso un libro? Quante cose possiamo scoprire fra le pagine incartapecorite di un volume d'altri tempi? Possiamo conoscere il sapere universale, carpire i segreti della vita e dell'esistenza del tutto, ma niente potrà mai sostituire la parola dell'uomo e il suo lavoro Cio' che scaturisce dalle vibrazioni della vocalità umana e dal sudore della sua fronte non potrà mai essere stampato su un foglio e nessun inchiostro lo potrà rendere eterno. Stavo scorrendo un lungo elenco di nomi, uno di seguito all'altro in un ordine sparso, confuso. Ad ogni nome era abbinato il prodotto risultato delle sue fatiche. Leo Bozzetto, acetaia Ca' dal Lauv, Prignano sulla Secchia: un prodotto interessante di cui ignoravo l'esistenza, ma interessante. Sfoglio velocemente la mia biblioteca, ma non trovo nessun riscontro su questo prodotto: deve essere qualcosa di unico! Un numero di telefono sbiadito accompagna quel nome, alzo la cornetta e chiamo. Una voce calda, famigliare, che accoglie con gioia l'inaspettata telefonata e crea immediatamente la magia. Poca tecnica, poca teoria, molto senso pratico. Poche parole, ma ben impostate, messe nel giusto ordine per descrivere minuziosamente il suo lavoro dietro questo meraviglioso prodotto. Nei dintorni di Prignano sulla Secchia, Leo produce il suo aceto di ciliegia in quella che fino a poco tempo fa era la sua locanda. Quante possibilità ci sono che alzando una cornetta ti capiti di parlare con una persona della tua terra a cinquecento chilometri di distanza? Doi furlans a tor pal mont (due friulano in giro per il mondo).
Pochi minuti di telefonata e sembrava di conoscerlo da sempre tanto che poggiato l'apparecchio avevamo già combinato un invito a cena. Neanche il tempo di prepararmi e ero là, davanti ad un fogolar acceso, con un bicchiere di buon vino e un piatto di genuina friulanità in compagnia dei coniugi e di una collega curiosa di intraprendere un'esperienza "extra"ordinaria. Nato per caso come i prodotti di una volta, forse da una disattenzione, ma da quel momento si è accesa una stella nell'universo gastronomico di questo paese. L'aceto di ciliegia di Leo non ha eguali e possiede le stesse armi del suo lontano parente di Modena ottenuto dalle uve di Trebbiano. Che sia crudo o leggermente scaldato, riesce ad esprimere le emozioni del frutto dal quale viene ottenuto. Chissà per quale ragione non ne abbiamo mai sentito parlare. Quale forza sovrannaturale non ci permette di trovarlo facilmente sul mercato... Penso di avere una risposta, ma non ho voglia di esporla. L'unica cosa che mi viene in mente è il tempo che utilizziamo per correre dietro ad antiche informazioni racchiuse dietro ai libri. Un tempo che spesso sovrasta quello che usiamo per affrontare la realtà delle cose. Il sapere e i sapori sono fonti equilibrate del nostro essere uomini, ma troppo a lungo rimaniamo chinati su pagine ingiallite invece di assaporare parole umane e i gusti della nostra terra.
1 Commento
I salumi cotti e stagionati sono in lotta continua per aggiudicarsi il primato storico della loro comparsa sulle nostre tavole. Per alcuni abbiamo già trovato delle testimonianze che ci permettono di risalire, a grandi linee, all'origine del prodotto come i prosciutti crudi, le spalle e i tagli interi in generale. Per altri il mistero è ancora avvolta nella nebbia come per il salame d'oca. Questo prodotto singolare tipico della Lomellina proviene direttamente dalla tradizione ebraica come evoluzione dell'allevamento e macellazione delle carni d'oca. Ad oggi conosciamo molte cose su questo prodotto, sotto molti punti di vista, ma sfortunatamente non siamo in grado di dare una paternità ai due prodotti simbolo di questo territorio: il salame d'oca stagionato e il salame cotto d'oca. Entrambi sono presenti e tutt'ora realizzati in Lomellina, ma non è ben chiaro da quanto tempo. Abbiamo a disposizione qualche data, qualche testimonianza e anche qualche fonte iconografica, ma non ci permettono di datare con certezza nessuno dei due prodotti. La cosa curiosa, è che entrambi possono prevedere la stessa identica ricetta e modalità di preparazione, solo che lo stagionato, dopo essere stato insaccato nel collo dell'oca viene lasciato appunto stagionare per circa tre mesi, mentre il cotto viene bollito e consumato tiepido o freddo. Quale dei due è nato prima? Chi ha ispirato l'altro? Quale genio si nasconde dietro i due prodotti? Molte domande senza risposte sicure... Nell'attesa di un'epifania, abbiamo provato a realizzare la versione cotta con metodi casalinghi come spesso viene preparato ancora in Lomellina. Oltre alla ricetta, vi proponiamo anche dei tutorial su come farlo a regola d'arte. Personalmente, ho deciso di proporre questo salame durante il pranzo di Natale come sfizioso antipasto e devo dire che si è rivelato al di sopra delle aspettative a detta dei commensali. Ricetta per un salame da 600g ca.
Una volta insaccato, il salame andrà cotto in questo caso. Se volessimo realizzare lo stagionato, lo stesso prodotto andrebbe messo prima a fermentare e poi a stagionare. La fermentazione come tecnica di trasformazione degli alimenti per nutrire il pianeta. Questo è stato uno dei temi conduttori del magnifico padiglione della Corea che grazie alla sua avanzata tecnologia ha saputo illustrare ai numerosi visitatori la preparazione del Kimchi, ovvero uno dei prodotti più conosciute di questo paese. Il Kimchi è un prodotto realizzato a partire dal cavolo, accuratamente pulito, salato e condito. Successivamente viene posto in recipienti di terracotta, coperto d'acqua e lasciato fermentare. Questa singolare produzione rientra a far parte di quel meraviglioso universo che comprende gli alimenti fermentati diffusi su tutto il pianeta in diverse forme. Vino, birra, formaggio, salame, sidro, crauti e via dicendo sono alcuni dei più importanti, diffusi praticamente ovunque. Ma oggi presenteremo un prodotto singolare che viene realizzato in una piccola area del Friuli Venezia Giulia: il Brovadar. L'ingrediente base sono naturalmente le rape, molto diffuse in regione e già famose per la più nota brovada. Queste rape vengono raccolte tra gli ultimi giorni di ottobre e i primi di novembre e successivamente sono lasciate a riposare in campo. Solo a questo punto vengono accuratamente lavate e spazzolate prima di essere sbollentate: foglie comprese! Forse è proprio questa la particolarità: l'utilizzo della foglia che spesso viene scartata da alcune lavorazioni, come la stessa brovada. Una volta raffreddate, le rape vengono inserite in grossi recipienti di legno (o plastica) e coperte con foglie di verza. Un'abbondante colata di acqua e sale ricopre il tutto prima di essere chiuso e lasciato fermentare per almeno 30-60 giorni. A fine lavorazione, vengono accuratamente tagliuzzate e utilizzate in varie preparazioni, dalla zuppa ai cjalcons, ai contorni per bollito ecc. TPreparazione quasi sconosciuta in tuta la regione, ha trovato il suo prestigio nella singolare manifestazione organizzata domenica 13 a Moggio Udinese che ha richiamato l'attenzione e l'appetito di molti curiosi ansiosi di assaggiare questa storica preparazione. Cosi' come il Kimchi è stato elevato a simbolo internazionale della lotta contro la sottoalimentazione per la sua capacità di essere conservabile, a impatto minimo e con ottimi valori nutrizionali cosi' il brovadar puo' accompagnarlo in questa difficile sfida mondiale. L'unica differenza? Uno dei due sta per scomparire, ormai quasi sconosciuto anche nella regione che gli ha dato i natali. Il brovadar rappresenta uno di quei prodotti della sapienza contadina che lottano quotidianamente per guadagnarsi un piccolo spazio nel paniere dell'agroalimentare regionale e nazionale. Qualcuno ci ha già pensato, riuscendo a realizzare dei prodotti stuzzicanti adatti a realizzare delle idee originali nei nostri menù. Le foto postate qui sopra raffigurano le due preparazioni realizzate dallo staff del Ristorante agli artisti di Moggio Udinese a base di brovadar. Cosa dire se non PROVATELI! Sono prodotti che richiamano la terra, la vita contadina, ma allo stesso tempo si presentano estremamente eleganti, adatti a tutte le occasioni.
EXPO non è solo la fiera delle meraviglie per curiosi di tutto il mondo, ma soprattutto un utile palcoscenico per sensibilizzare la popolazione sui problemi reali del settore agroalimentare, non solo del nostro paese.
Proprio in questi giorni, i quotidiani locali del Friuli Venezia Giulia stanno dedicando numerosi spazi ad un evento organizzato dallo spazio della Coldiretti ad EXPO. Il 25 agosto è stata organizzata la "Giornata del coniglio" ovvero un momento di riflessione sulla continua ascesa di un settore che vede in Friuli e Veneto frutta 350 milioni di euro. Si tratta purtroppo di un settore che risente molto della crisi economica che sta passando il nostro paese e dei prodotti provenienti dall'estero che vengono distribuiti in Italia a prezzi inferiori al nostro. Per rilanciare questo settore gli addetti ai lavori come l'Associazione Coniglio Italiano (ACI), si sono rimboccati le maniche per dare un nuovo profilo a questa produzione, accompagnando il prodotto, già di qualità indiscutibile, ad un marchio ed un disciplinare che in questo momento sono in attesa della burocrazia per avere la giusta approvazione. Un settore come quello dei cunicoltori che negli ultimi 30 anni ha visto una riduzione drastica di allevamenti e di capi allevati di quasi il 50% ha ora le carte in regola per ritornare in auge con un prodotto dai caratteri organolettici e nutrizionali assai validi e invidiati da molte filiere, non solo italiane. Naturalmente non solo la crisi economica ha causato le problematiche di questo settore, ma anche le ultime vicende che hanno visto una parte della politica del nostro paese combattere affinché il coniglio venga etichettato come animale domestico. "Fino a due anni di carcere per coloro che consumano carne di coniglio". Queste le dure parole dell'On. Michela Vittoria Brambilla che già da tempo si batte per lo scopo. Come se non bastasse questa tipologia di carne sta scomparendo anche dalle mense scolastiche, in parte per il suo prezzo "sfavorevole" rispetto al suino e anche per idee parallele a quelle dell'onorevole.
In poche parole, ci troviamo davanti ad un bivio di notevole importanza. Da una parte, riconoscere un animale che fa parte della gastronomia del nostro paese da centinaia di anni come domestico, e quindi mettere in ginocchio un altro dei nostri settori dell'agroalimentare oppure lottare per la qualità di un prodotto che porta ai secondi in classifica a livello mondiale per la produzione e intensificare la nostra offerta sui mercati internazionali... Al consumatore l'ardua scelta.
Per ulteriori informazioni, consiglio di dare un'occhio ai seguenti articoli: Un piccolo scorcio di ruralità e tradizione risplende in un paese spesso troppo industrializzato che rincorre l'ultimo ritrovato in campo tecnologico. Ogni anno, alle prime lune di Agosto, una piccola cittadina in provincia di Pordenone rispolvera una delle più antiche tradizioni gastronomiche friulane: l'oca in tavola. Morsano al Tagliamento o Morsan da lis Ocjis (Morsano delle oche), sede della famosa Festa dell'oca, rappresentava uno dei fulcri italiani più importanti nell'allevamento delle oche e nella lavorazione delle sue carni per la creazione di ottimi salumi. Fin dall'epoca romana, questo territorio era stato designato agli allevamenti di questo volatile che permetteva di ottenere non solo carni succulente, ma anche il prestigioso fegato, piume e grasso utile alla conservazione degli alimenti. Oggi Morsano rimane uno dei capisaldi di questo tipo di tradizione che ritroviamo in pochi centri italiani come Palmanova (UD), Mortara (PV), Ferrara e alcuni territori del Veneto. La millenaria storia che lega le oche a Morsano fortunatamente è ancora visibile grazie a piccoli segni sparsi per tutto il paese. Non di meno, la Festa dell'oca, famosa anche fuori dal territorio friulano richiama ogni anno numerosi visitatori curiosi di gustare le prelibatezze realizzate dalle mani sapienti della Pro Loco del luogo in grado di stupire per i suoi gusti rustici, genuini legati ad un passato purtroppo sempre troppo lontano. Dopo anni di tentativi, ho potuto partecipare personalmente a questo evento e gustare tutte le preparazioni caratteristiche di questa festa. Crostini con patè d'oca Salumi d'oca: petto affumicato, salame e prosciutto cotto Gnocchi al ragù d'oca Oca in umido con polenta bianca Quale altra festa può regalarvi tutti questi sapori? Fateci un salto e proverete!
La tortellata di San Giovanni è una tradizione della zona del parmense con origine non ancora del tutto chiara. Quella sicuramente condivisa dalla maggior parte delle persone riguarda l'attesa della "Rusèda ed San Svàn" (Rugiada di San Giovanni). La tradizione vuole che la sera prima di San Giovanni, si resti alzati almeno fino a dopo la mezzanotte per "prendere la rugiada" che sembra avere proprietà uniche nel suo genere tra le quali quella di curare i mali del corpo dell'animo. La rugiada, inoltre, si pensa sia indispensabile per la realizzazione del Nocino (tipico liquore del parmense) e per la raccolta e essiccazione delle erbe.
Probabilmente questa usanza non ha origine cristiana: si pensa infatti che si tratti un rito di derivazione pagana basato sul festeggiamento del solstizio d'estate che cade nello stesso periodo. Altra tradizione vuole invece che la notte di San Giovanni avvenga l'incontro tra il sole e la luna che rappresentano il fuoco e l'acqua. Da qui' l'uso dei contadini di accendere i noti falò di San Giovanni e di prendere la rugiada dai poteri curativi e miracolosi. Come avrete notato si tratta di una tradizione che si perde fra cristianità e paganesimo con ritualità che spesso vengono attuate anche ai nostri giorni. Oggi, non esiste San Giovanni che si rispetti senza la famosa Tortellata. La sera del 23 Giugno, infatti, le famiglie si riuniscono intorno al tavolo per gustare i famosi tortelli rigorosamente farciti di ricotta e erbette. Di seguito, una semplice ricetta per realizzare circa 3oo tortelli:
Procedimento
Potremmo definirlo un week-end di totale evasione, oppure un'opportunità di arricchimento fuori dal normale. Il 23 e 24 Maggio, la piccola cittadina di Arvier (AO) è stata invasa da più di duecento tecnici e maestri assaggiatori di salumi appartenenti all'ONAS (Organizzazione Nazionale di Salumi) che hanno partecipato attivamente ad un ricco evento di approfondimento tecnico scientifico sui salumi e l'enogastronomia di questa regione. Arvier è un piccolo comune non molto distante da Aosta che sorge a 780m s.l.m nella valle della Dora Baltea. Le sue piccole strade, i tetti di pietra e la natura incontaminata che si staglia a perdita d'occhio, sono solo alcuni dei caratteri di questa cittadina che segna il passaggio dell'uomo fra queste aspre montagne. Prima di arrivare al cuore dell'evento, il fitto programma organizzato dall'associazione, ha visto i soci impegnati in una visita guidata presso il Salumificio Bertolin di Arnad ovvero uno dei centri principali della produzione del noto Lardo d'Arnad IGP accompagnato da moltissimi altri prodotti tipici di questa regione come lo Boudin (salame di patate), la Motzetta, il Violino di camoscio, lo Teteun (mammella di vacca) e molti altre prelibatezze che caratterizzano questa terra meravigliosa. Ben diversamente si è svolto il pomeriggio, che è stato accompagnato dal tintinnio di bicchieri presso la cantina Coenfer di Arvier dove i partecipanti hanno potuto entrare nel vivo della viticoltura valdostana definita spesso "eroica" a causa delle asperità del territorio, ma che ad oggi vanta vini di enorme prestigio non solo nel nostro paese. Nella magnifica cornice della cantina Coenfer di Arvier, gli assaggiatori sono diventati i veri protagonisti della tipica Veillà valdostana introdotta magnificamente dal Maestro Assaggiatore Vilma Cianci: “Si rompevano le noci per fare l'olio, si tesseva, si cuciva, si costruivano o si riparavano i cesti e gli utensili di legno o, semplicemente, si stava assieme per chiacchierare. Era l’occasione in cui gli uomini decidevano le Corvées, ovvero i turni per pulire gli spazi comunitari: i ruscelli, le fontane, i sentieri, i forni... Era anche il momento in cui i giovani si incontravano e nascevano i primi amori... Si raccontavano storie spaventose o favole ai bambini... si giocava a carte, alla morra... Si consumava anche un piccolo pasto ,che variava a seconda delle stagioni e delle possibilità, del formaggio, un po' di pane e se si era fortunati ad averne della motzetta e come dolce “la fiocca” cioè la panna montata con lo zucchero.” Veillà significa veglia, "stare alzati". Si trattava di un momento di condivisione. Dopo cena, ci si riuniva a turno a casa di un parente o di amici e si trascorreva assieme molto tempo libero dopo il duro lavoro nei campi. Nel corso della serata, oltre ai sublimi vini della cantina Coenfer, sono stati servite alcune delle grandi specialità della Valle d'Aosta rivisitate da uno chef stellato. Fontina DOP, Carbonade, polenta e fiocca, salsiccia fresca, Lardo d'Arnad IGP, Jambon de Bosses DOP, Teteun e altre tipicità del territorio hanno deliziato i palati degli assaggiatori in un'atmosfera ricca di cultura e tradizionalità indimenticabile. Il cuore dell'evento, il convegno, si è svolto nella mattinata seguente con un ricco programma di interventi di esperti del settore. Dopo i saluti del presidente ONAS, Dott.ssa Bianca Piovano, si sono susseguite diverse presentazioni riguardanti l'ambiente, la storia, le produzioni DOP e IGP e la tradizione vitivinicola della Valle d'Aosta. A congresso concluso, una volta deliziato il palato con il ricco buffet di prodotti tipici, partecipanti si sono diretti al Salumificio Jambon de Bosses di Saint Rhémy e Bosses per completare in bellezza la loro formazione analizzando approfonditamente le tecniche di realizzazione di questa eccellenza valdostana, il Jambon de Bosses DOP.
Ci lasciamo alle spalle le bellezze di Urbino in uno dei primi sabati afosi di Maggio cercando refrigerio sulle dolci colline dell'appennino marchigiano sperando di trovare un'allegra frasca per dare sollievo al nostro appetito. Passati i piccoli paesi che portano direttamente a Fano, seguiamo le indicazioni di un nostro compagno del posto e prendiamo la strada per Calcinelli e qui comincia la magia. Il panorama delle città che brulicano sulla pianura, si fa più docile e lascia spazio a qualche borgo qui e là, circondato dai boschi verdi e dagli immensi uliveti che ci guidano lungo il percorso. La lunga strada asfaltata comincia piano piano a restringersi, a mostrare i segni del tempo e la lontananza dai centri abitati più frequentati. Passato Cartoceto e i suoi magici frantoi d'importanza internazionale, arriviamo finalmente a destinazione a Pozzuolo di Cartoceto. Poca case di mattoni, una chiesa con il suo campanile che svetta in mezzo al verde, una strada principale, circondata da boschi, campi, orti, frutteti e... silenzio. La vera magia di questo borgo è il silenzio. I suoi ventitré abitanti sembrano esistere solo sulla carta: a volte si sente il rombo di una macchina, due signore anziane che chiacchierano e dei bambini giocare in strada. Tutto il resto è natura: una delle più belle che io abbia mai visto. Siamo arrivati ad ora di pranzo, con la testa arsa dal sole battente e le pance vuote. Il nostro compagno di viaggio ci consiglia una sosta in quello che sembra l'unico luogo di ristoro del centro: l'Agriturismo Pozzuolo. Da fuori si presenta come una grande casa bianca, non vecchia, sembra ristrutturata, ma quello che balza agli occhi è l'interno. Un ambiente curato nei minimi particolari, dall'angolo soggiorno con la sua libreria, alle tre camere che paiono disegnate da un pittore. La sala da pranzo è qualcosa di sublime con i suoi tavoli intagliati, la stufa e una grande porta che permette di osservare il lavoro della padrona di casa. Loretta, insieme al marito Daniele gestiscono questo piccolo angolo di paradiso: lei indaffarata ai fornelli e lui impegnato negli orti circostanti che permettono di portare sulla tavola prodotti freschi e di stagione. Questi due fantastici personaggi ci accolgono come solo due famigliari potrebbero fare. Ci mostrano orgogliosi tutto l'agriturismo, compresa la cantina rifornita di vini eccellenti e salumi in stagionatura e il forno con il quale preparano un ottimo pane e naturalmente i dolci tipici di questa terra. Manca ancora un po' di tempo al pranzo percio' decidiamo di girovagare intorno all'agriturismo seguendo le piccole strade sterrate che affiancano gli orti, i frutteti, gli uliveti e i campi. Un cancello aperto ci permette di dare sfogo alla nostra voglia di andare alla ricerca di tutte quelle erbe selvatiche che questa terra può offrirci. Immediatamente veniamo travolti da un ricco bouquet di profumi nel quale riconosciamo chiaramente il finocchietto e la menta selvatica. Ora di pranzo. Loretta appaga i nostri palati con una cucina sublime, semplice, ma ricca di gusto e tradizione. Tutte le ricette sono realizzate con prodotti del luogo ottenuti dal lavoro nei loro orti o delle aziende agricole circostanti. Il vino? Naturalmente locale! Mangiano insieme a noi, come se ci conoscessimo da sempre: ci diamo del tu, ridiamo, scherziamo e parliamo della nostra gastronomia e dei problemi che la circondano. Daniele ogni tanto scappa in cucina per portare in tavola qualche assaggio di prodotti che ha comprato nei dintorni. Il pranzo è finito, ma il pomeriggio ricomincia all'insegna di una scampagnata nell'orto dell'agriturismo alla ricerca dei carciofi maturi e delle fave che di li a poco imbandiranno la tavola. L'Agriturismo Pozzuolo è il simbolo di quell'Italia che resiste, quell'Italia legata alla terra, alle tradizioni, alla famiglia e all'ospitalità. Qui non troverete il caos cittadino, ma solo la natura incontaminata, la buona cucina marchigiana e la felicità della gente che crede nel proprio lavoro e lo fa per passione giorno dopo giorno.
Se avete voglia di evadere dalla monotonia moderna, dal caos cittadino, vi consiglio di soggiornare per qualche giorno all'Agriturismo Pozzuolo e se non potete passare la notte di questo magico posto, concedetevi un pasto... in famiglia. A presto... Quaresima. Ovvero i quaranta giorni che separano le festività del Carnevale dalla celebrazione della Pasqua. Quaranta giorni in cui la tradizione cristiana richiama alla penitenza, alla preghiera, al digiuno in qualche modo collegato a quello che Cristo intraprese durante i quaranta giorni che passò nel deserto. In passato al cristiano credente veniva imposto forzatamente il digiuno, o meglio il mangiare di magro. La disobbedienza alla regola poteva anche portare alla pena capitale.
Qual è, dunque, il significato del mangiare di magro? Questa pratica, che dovrebbe perpetuarsi fino alla fine della Quaresima e tutti i venerdì dell’anno proibisce l’utilizzo di carni rosse, bianche e insaccati. Durante il Medioevo, arrosti, selvaggina ed ogni altra preparazione grassa erano elevati a cibo per eccellenza e il magro relegato a semplice surrogato, lo stesso vale per tutte le tipologie di condimento di origine animale come burro, strutto, lardo. I derivati del latte vengono riammessi a fine Medioevo. Fino al XX secolo, inoltre, viene proibito anche il consumo di uova e latticini soprattutto nei giorni di totale astinenza. La famiglia dei cibi concessi durante la Quaresima, quindi, si restringe e i praticanti sono costretti a ripiegare sul pesce, sulle verdure e sui legumi, così, che nelle case dei nostri antenati, comparivano ad esempio le aringhe, tipico pesce povero da consumarsi fresco, essiccato o salato. La tradizione gastronomica del nostro Paese, ma non solo, è stata in grado di creare numerose ricette partendo da questi pochi elementi per riuscire a portare in tavola dei pasti sostanziosi. In Emilia Romagna ecco i cappelletti di Quaresima ripieni solo di ricotta e Parmigiano Reggiano, oppure la ciambella quaresimale. Sulle colline romagnole, qualche famiglia prepara ancora la buzega, una tipica zuppa di fagioli, castagne secche, patate, cipolle e passata di pomodoro. Pellegrino Artusi, il più famoso gastronomo d’Italia e della Romagna, nel suo libro ‘La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene’, presenta degli spaghetti di Quaresima che normalmente vengono serviti in Romagna: si tratta appunto di spaghetti conditi con zucchero, noci, pan grattato e spezie. Da non dimenticare sono anche i migliacci, ovvero focacce a base di farina di mais e farina di castagne e i biscotti quaresimali preparati con un impasto di farina, zucchero, burro, e uova. Tra le altre preparazioni ecco l’aglietto, cioè le foglie di aglio utilizzate soprattutto in frittata, la pasta con le sardelle, le tagliatelle all’uovo fritte e condite con lo zucchero. In alcune zone vicino a Faenza si possono ancora trovare i ben noti ravioli di Faenza fatti di pasta all’uovo con un ripieno di castagne e marmellata. Un cibo su tutti, infine, è riuscito a emergere rispetto agli altri per la grande varietà di elaborazioni create nelle cucine italiane: la pasta. Seguendo i precetti quaresimali, la pasta si sposa perfettamente con pesce, legumi e verdure di vario genere. Non crediate però che i cristiani di tutti i ceti sociali abbiano rispettato sempre le regole: esistono infatti numerosi piatti contraffatti, come li definiremmo oggi, oppure regole che cercano di aggirare le limitazioni dei digiuni. In epoca medioevale si cercò di inserire la carne d’oca nella famiglia dei cibi permessi nei giorni di magro sfruttando una leggenda secondo cui le oche si originano da piccole conchiglie che si schiudono in acqua e perciò sono molto più simili al pesce che alla carne degli animali terrestri. È ironico pensare come un cibo considerato subalterno venisse, con tentativi più o meno riusciti, trasformato in un’imitazione di un alimento grasso, un po’ come oggi succede in alcuni ristoranti vegetariani o nei banchi dei supermercati, dove prodotti di ‘carne senza carne’ cercano di camuffarsi con le classiche preparazioni. Dopo il Concilio Vaticano II, le limitazioni alimentari nei giorni di magro si sono ridotte eppure il consumo di pasti magri ha permesso non solo di rispettare un credo religioso ma anche di salvaguardare la salute della popolazione, soprattutto quella dedita a grandi consumi di alimenti di origine animale e carni conservate. di Marco Furmenti Fonte: Parmateneo Appena entrati nei confini della provincia di Parma non si può non sentire il suono dei violini che accompagnano il Maestro Giuseppe Verdi, immaginarsi tra le mani una squisita fetta di culatello di Zibello, di prosciutto crudo o di salame, oppure annusare nell’aria la tipica essenza di chi ha fatto delle sue terre una ragione di vita. In questo clima così variegato di storia umana, musica e cultura, non poteva non nascere l’animale simbolo di abbondanza: sua maestà il Suino Nero di Parma.
LA PRIMA QUALITA’ DA TUTELARE - Color ardesia scuro, setole rade di colore grigio tendente al nero, media-grande dimensione, orecchie in avanti tendenti verso il basso ed in alcuni esemplari delle appendici che partono dalle guance, dette “tettole”: sono queste le caratteristiche morfologiche che ne fanno una specie da tutelare ad ogni costo. Il salvataggio del Suino Nero di Parma è avvenuto grazie ad Anas (Associazione Nazionale Allevatori Suini), Apa (Associazione Provinciale Allevatori), Camera di Commercio, Soprip (Agenzia per lo sviluppo locale), Dipartimento di Produzioni Animali, Sezione di Scienze Zootecniche e Qualità delle Produzioni Animali e la società Agri-eco per quanto riguarda la tracciabilità dei prodotti e della filiera. Come si può intuire dall’imponente schieramento di enti, il lavoro non è stato particolarmente semplice né la sua organizzazione scontata: disordini delle nascite e negli incroci erano problematiche comuni all’inizio del progetto e richiedevano un grosso sforzo di cooperazione. IL CONSORZIO DEL SUINO NERO DI PARMA - Nel 2006 nasce il Consorzio del Suino Nero di Parma su iniziativa degli Enti Promotori e di una ventina di Allevatori accomunati dalla passione per questo suino e dalla ricerca di grande qualità nei prodotti che da esso derivano. Il suo compito sarà il costante miglioramento, la valorizzazione e la diffusione di questi animali insieme alla tutela del consumatore finale. Con la nascita del Consorzio si è redatto anche un regolamento, o meglio un disciplinare di produzione, che include tutti gli aspetti che vanno dalla rintracciabilità alle tecniche di allevamento, passando per i mangimi e l’aspetto igienico della filiera, fino ad arrivare agli oneri degli operatori. Altro aspetto importante del Consorzio è che dà supporto al fine di garantire la tracciabilità di tutti i passaggi di filiera assegnando ad ogni allevatore iscritto all’Albo un codice identificativo alfa-numerico che gli servirà a contraddistinguere la carne dei suini da lui allevati. Per il nero di Parma si possono impiegare due tecniche di allevamento: quella allo stato brado o semi-brado e quella stabulato. Ad oggi non si hanno notizie di allevatori che utilizzino l’allevamento stabulato, questo perché vi è una netta e sostanziale differenza (di minor qualità rispetto a quelli bradi o semi-bradi ) della vita dei suini e della qualità del prodotto finito. Tratto da un testo del Consorzio: “Il Nero di Parma è un animale che possiamo definire unico, sia per la prelibatezza delle sue carni che per la sua vocazione ad essere allevato all’aperto.” E’ qui che è presente la vera innovazione e una nuova filosofia: dare qualità e benessere alla vita del suino. A rendere il Nero di Parma un prodotto ricercato, impiegato anche dai grandi chef, sono l’intensa pigmentazione rosso rubino delle sue carni, che lo ha fatto apprezzare fin dai tempi antichi, la forte marezzatura (grasso intramuscolare), che dona aromi e profumi meravigliosi insieme al lardo che è praticamente il doppio, come spessore, rispetto a quello del tipico maiale rosa Large White o Landrace belga. Il Suino Nero di Parma ingrassa in maniera molto più lenta rispetto alle razze più diffuse (impiega circa 15-16 mesi per arrivare al peso dei 180/190 Kg) e durante la lavorazione delle carni abbiamo dei tempi differenti per attuare processi di denaturazione proteica (tempi di pugnatura nella preparazione del salame), di stagionatura (per via delle carni marezzate che impiegano più tempo a stagionare) o di salatura (la carne del Suino Nero di Parma è molto più saporita, tanto che alcune aziende agricole, in preparazioni come il lardo pesto, non aggiungono il sale). Di norma vedrete, durante le degustazioni di salumi di Suino Nero, che il taglio delle carni viene sempre fatto a coltello per non intaccare le qualità e le caratteristiche organolettiche del salume. DALLA TRADIZIONE ALL’INNOVAZIONE GASTRONOMICA- Si capisce bene che tutte queste qualità date dall’allevamento, dalla tipologia di maiale, dalla storia, dalla lavorazione e dal contesto gastro-culturale rendono i prezzi dei prodotti non proprio a buon mercato, ed è qui che entriamo in gioco noi gastronomi. Siamo noi ad avere il compito di far capire che, in questi anni in cui il cibo lo fa chiunque e con qualunque risorsa, è importante sapere chi produce e dove produce, con quali criteri, quale morale e filosofia ci sono dietro all’azienda. Mangiare per conoscere e valorizzare una terra e una cultura; mangiare per sostenere e capire chi siamo e da dove veniamo; partire dalla tradizione per fare innovazione gastronomica e cercare di salvaguardare il più possibile la biodiversità del nostro territorio. Tutto questo e molto altro è ciò che facciamo quando compriamo prodotti come il Suino Nero di Parma: entriamo a far parte di una storia e assaporiamo i frutti della conoscenza e del lavoro dell’uomo, rendendoci sempre più consapevoli delle scelte che facciamo, valorizzandoli. Ed è proprio con questa filosofia che sono nati due importanti progetti a livello europeo. I PROGETTI EUROPEI PER IL SUINO NERO- MED e QUBIC sono parole che per molti suonano estranee. In realtà rappresentano due piani di crescita che si stanno sviluppando sul territorio europeo e che potrebbero rivoluzionare il nostro modo di concepire le attività produttive. Il programma MED è un programma di collaborazione e cooperazione internazionale finanziato dall’Unione Europea che pone alla base il territorio, i rischi ambientali connessi alle attività produttive e ai trasporti internazionali. Uno dei punti chiave di questo programma è sicuramente la protezione dell’ambiente e la promozione di uno sviluppo territoriale sostenibile. Si tratta di una tematica molto delicata che ha portato alla creazione del progetto QUBIC (Qualità, biodiversità, innovazione e competitività) che è stato approvato nel 2009 nell’ambito del progetto MED 2007-2013 tra i paesi dell’Unione Europea del Bacino Mediterraneo. Non si parla più di sviluppo agricolo e territoriale in senso stretto, ma di uno sviluppo che permetta la conservazione della biodiversità animale e un’attività sostenibile. Il concetto alla base della biodiversità è l’utilizzo di razze autoctone, tipiche quindi del territorio, per poterne sfruttare al meglio le caratteristiche specifiche. Un animale che viene cresciuto nel suo habitat, permette di ottenere delle materie prime di qualità superiore rispetto ad uno allevato forzatamente in un luogo estraneo alla sua specie. Ottenere materie prime di qualità superiore rispetto alle tecniche intensive utilizzate oggi, permette inoltre la creazione di prodotti tipici organoletticamente superiori e molto più competitivi rispetto ai simili sul mercato che spesso costituiscono un enorme paniere di commodities. Il progetto QUBIC orienta i suoi sforzi sulla cooperazione dei protagonisti della filiera e le autorità pubbliche per supportare una serie di progetti atti a preservare la biodiversità animale permettendo di creare un nuovo modo di fare agricoltura e allevamento. Tutto ciò nasce dalla consapevolezza che i sistemi produttivi odierni, basati su pratiche intensive, non sono assolutamente sostenibili nel corso del tempo e possono portare alla scomparsa di tutte quelle produzioni ritenute a bassa resa. Nella fattispecie, il progetto è dedicato alla biodiversità del suino e ai prodotti a base di carne che ne possono derivare: per questo motivo, le aree interessate dall’iniziativa sono la Spagna, la Francia, la Grecia e l’Italia. Nel nostro paese, non sono poche le aree protagoniste della difesa della biodiversità suina, partendo naturalmente dalle regioni del sud Italia che sono quelle che ad oggi presentano la quantità maggiore di razze autoctone sopravvissute. In primis, troviamo la Sicilia con il Suino Nero dei Nebrodi, la Toscana e la Cinta Senese, l’Emilia-Romagna con la Mora Romagnola e naturalmente il Suino Nero di Parma, di cui si è parlato nella prima parte dell’articolo. Questa razza autoctona della nostra provincia, ha visto diminuire progressivamente il numero dei capi a partire dall’arrivo in Italia dei più noti Large White che ne hanno preso il posto nelle produzioni locali. Solo negli ultimi vent’anni grazie a progetti di recupero e lavori di selezione di alcuni allevatori, è stato ricreato il tipo genetico fondando anche il Consorzio di Tutela del Suino Nero di Parma. di Marco Furmenti e Alessio Bolsi Articolo tratto da Parmateneo |
Marco FurmentiCuoco e Dottore in Scienze Gastronomiche Archives
Aprile 2018
Categories
Tutto
|